Grandi amori, piaceri estremi

di Francesco D’alpa

 

Gli uomini di ogni epoca hanno accettato o condiviso particolari pratiche sessuali, nel contesto religioso come in quello profano; e l’esercizio libero di queste pratiche è risultato funzionale ad un buon funzionamento psichico e ad una soddisfacente integrazione sociale. All’opposto il rifiuto dell’erotismo, la demonizzazione del piacere carnale e la penalizzazione di pratiche ritenute innaturali hanno sempre favorito, massimamente fra i religiosi e le anime pie, forme più o meno gravi di nevrosi sessuale, spesso centrate su atteggiamenti e pratiche perversi. I comportamenti sessuali, miranti al soddisfacimento di una tensione ‘biologica’, non sono infatti limitati alla sfera genitale, essendo l’eros una forza fondamentale dello psichismo, come in effetti lo può essere il cosiddetto senso religioso.

 

La perversione dell’impulso religioso e la perversione sessuale (intesa secondo uno schema tradizionale) hanno come fine comune l’essere finalizzate al soddisfacimento egoistico dell’individuo, secondo un principio di piacere. Nel caso del sesso, l’obiettivo non è mai la riproduzione, e non sempre il coito. Ma se, nonostante l’uso degli organi genitali, tutto ciò che non conduce alla riproduzione o al coito è perverso, lo sono anche azioni assai meno connotate sessualmente, come il semplice bacio o i contatti tattili innocenti? Di fatto i teologi lo hanno quasi sempre sostenuto: ed infatti l’elenco dei ‘peccati’ (in ‘pensieri, parole ed opere’) a sfondo sessuale (dai ‘veniali’ ai ‘mortali’) è risultato in buona parte una sorta di catalogo di ciò che essi intendevano come perversione sessuale. Il concetto si potrebbe estendere: da un erotismo fuori dalle regole, ad atti in apparenza tutt’altro che perversi: ad esempio, amare un insegnante dello stesso sesso può nascondere un impulso omosessuale; lasciare il partner può implicare del sadismo; e, soprattutto, dedicarsi anima e corpo ad un partner esclusivo può essere un esercizio di masochismo.

Nell’ambito della sessualità, dove va posto dunque il limite? e la normalità ha un limite? Secondo i catechisti (o i sessuologi con vedute più restrittive) il discrimine starebbe nel fine: giacché nella normalità gli aspetti ‘perversi’ (quando presenti) risultano non essenziali, e comunque finalizzati al coito; nella patologia, invece, l’atto ‘perverso’ diviene indispensabile, fine a se stesso, sostitutivo del coito, e  per lo più oggetto di compulsione.

L’impostazione (laica) del problema cambia alquanto se anziché  il coito si prende a fine della sessualità l’orgasmo, definendo normale tutto ciò che porta al suo raggiungimento (argomento comunque estremamente pericoloso, in quanto condurrebbe ad ammettere anche qualunque forma di violenza sul partner!). Per questo oggi generalmente si preferisce ammettere che l’unica forma di normalità sessuale sia quella sentita come tale da una determinata società, in un dato momento storico.

 

Ma torniamo al rapporto fra religione e sesso. I due termini sono legati indissolubilmente; non a caso, le crisi religiose sono tipiche dell’adolescenza; gli scrupoli di coscienza hanno a che vedere con i disturbi dell’identità sessuale; il misticismo si coniuga con l’onanismo, la devozione con la depressione, l’estasi con l’orgasmo.

Il linguaggio religioso (un esempio per tutti: il biblico “Cantico dei cantici”), soprattutto quello dei mistici, trabocca di sensualità; le pratiche devozionali più intense implicano pensieri, azioni, oggetti a carattere più o meno manifestamente sessuale. Ma, in accordo con il tratto depressivo e la tematica colpevolizzante ed autopunente della vita religiosa consacrata, si trova quasi sempre negli uomini religiosi, e massimamente nei grandi mistici, una decisa perversione dello spirito o il mascheramento di una perversione sessuale (e le due cose spesso coincidono).

L’esempio forse più noto ci viene dalla vita di Margherita Maria Alacoque, mistica santificata dalla chiesa cattolica nonostante la franca patologia psichiatrica insita nella sua devozione e nelle sue pratiche di mortificazione. La sua biografia è tutta amore estremo per l’amato (Gesù), fino alla totale schiavitù. Ma l’essere succube e sacrificata ad un dio anziché ad un amante mortale, ne ha reso meno perversi i pensieri e le pratiche? Ed il godimento nell’essere (almeno apparentemente) privata della propria volontà e totalmente posseduta dall’amato, il piacere estremo proveniente dalle sofferenze (reali o immaginarie) non sono gli stessi provati per un amante carnale? Certamente lo sono, e lo dimostrano le parole con cui vengono espressi.

 

Seguendo i suoi scritti, e volendo in qualche modo schematizzare, un primo passo nell’itinerario mistico sacrificale di Margherita Maria è la rinuncia a se stessa, alla propria volontà cosciente, svuotandosi dalle sensazioni, dalle passioni, dagli affetti  inopportuni; assoggettandosi in tutto all’amato in offerta sacrificale: “Gli offrii subito l’anima e tutto il mio essere perché potesse usarne secondo la sua volontà” (SA, p. 32);  “Compresi bene di dover rinunziare a ogni sorte di comodità. Non potevo stare sul lato sinistro perché non riuscivo a respirare; ne ero impedita da una misteriosa causa, che non mi permetteva nemmeno di emettere sospiri durante l’orazione. In essa il mio spirito cercava soltanto Gesù, che spesso mi chiedeva se lo amassi” (SA, p. 37).

Il dio-amato è infatti esigente, e vuole un esclusivo potere sulla mente come sul corpo dell’amata: “Non ricordi che tu non hai altro dovere che aderire alla mia volontà?” (SA, p. 38); “Voglio che tu ti abbandoni alla mia Potenza, come ti ho permesso di fare ora. Sia che ti accarezzi o che ti tormenti, non devi avere altri sentimenti che quelli che Io ti darò” (SA, p. 87).

L’amata acconsente in tutto, anche se deve soffrire per divenire conforme al volere ed al piacere dell’amato: “Una volta mi disse che il mio cuore era come una tela viva, sulla quale voleva dipingere un’immagine vivente, che non mi avrebbe più permesso di riposare e mi avrebbe causato sofferenze più amabili che dolorose. É vero, non c’è per me nessuna umiliazione o mortificazione che non racchiuda in sé più dolcezza che amarezza” (SA, p. 43); “A proposito delle sofferenze, trovo che esse siano la cosa più vantaggiosa per un’anima. Posso assicurare che essa cresce nella perfezione più in un mese, o anche in una settimana di pene e di sofferenze accettate dalla volontà di Dio, che in un anno intero di dolcezze e consolazioni” (SA, p. 48).

Se è vero che l’assoggettamento porta all’apparente rinuncia di se stessi, produce anche (forse soprattutto) piacere masochista: “Che io mi perda o mi salvi non ha importanza, purché si compia la sua amabile volontà, a me tanto cara […] Voglio sottomettermi ciecamente a Lui, anche in quelle cose per me poco comprensibili…” (SA, p. 42); “Una volta, rammaricandomi con Nostro Signore perché non riuscivo  a fare niente in sua presenza, avvertì all’improvviso dentro di me questa voce: «Se ti voglio sorda, muta e cieca in mia presenza, non ne sei contenta?»” (SA, pp. 33-34).

Come in ogni buon racconto sadomaso (dalla  “Venere in pelliccia” di Leopold von Sacher-Masoch alle “Cinquanta sfumature…” di Erika Leonard), anche nel caso di Margerita Maria, fra amata ed amante viene sottoscritto un contratto: “…i suoi favori e le sue grazie particolari saranno sempre accompagnati in me da umiliazioni, contrarietà e disprezzi, che mi verranno dagli altri […] dopo aver ricevuto alcuni di questi favori o comunicazioni divine, di cui sono tanto indegna, mi dovrò sempre sentire immersa in un abisso di annientamento e di vergogna interiore. Questo stato mi farà provare tanto dolore per la mia indegnità e nello stesso tempo tanta gioia nel godere dei meriti e della liberalità del Signore, il quale con questo sistema spegnerà in me ogni vana compiacenza, stima di me e ogni vanità […] Queste grazie non mi impediranno mai di osservare le mie regole e di obbedire  […] questo Spirito che mi conduce (dal quale ricevo tutte le grazie), si è talmente impossessato di me, da poter affermare che regna nel mio intimo come Gli piace, tanto da sentirmi incapace di opporgli resistenza” (“Regole per discernere lo spirito di Dio”; in SA, pp. 110-111).

Tale contratto viene in seguito perfezionato da un voto: “…che deve servirmi per legarmi, consacrarmi e immolarmi in maniera più stretta, assoluta e perfetta […] Procurerò, mio unico amore, di tenere a Te sottomesso e assoggettato tutto ciò che è in me […] Non trascurerò, né ometterò mai alcun esercizio e osservanza della regola […] Voglio soffrire in silenzio, senza lamentarmi, qualsiasi trattamento possa ricevere. Non eviterò alcuna sofferenza, sia fisica che spirituale, e nessuna umiliazione, disprezzo o contraddizione […] Non mi procurerò sollievi di sorta […] Lascerò piena libertà alla mia superiora di disporre di me come meglio crede, accettando con umiltà e indifferenza i compiti che mi vengono dall’ubbidienza. […] Farò tutto questo come se ci provassi piacere. […] Considererò tutti quelli che mi affliggono o parlano male di me, come i miei migliori amici […] In conclusione, voglio vivere senza nulla decidere e nulla desiderare, ripetendo ad ogni evenienza: «Sia fatta la tua volontà»” (SA, pp. 134-137).

 

Il misticismo ascetico cristiano, come in questo esempio, è concepito quale presa di possesso dell’anima da parte di Dio e godimento di questa sconfitta; e si differenzierebbe in modo sostanziale dal misticismo orgiastico dei culti pagani ed orientali. Ma misticismo ascetico e misticismo orgiastico sono in realtà due espressioni di una stessa esperienza psicologica. Come nel misticismo religioso, anche nel misticismo orgiastico di molti popoli primitivi il dolore ha una importante funzione religiosa: privazioni, digiuni, sofferenze subite o autoinflitte eccitano la mente, conducono alla voluttà. Nell’estasi orgiastica si produce volutamente una  frammentazione dell’io. Nell’estasi mistica religiosa, invece, la dissociazione non viene cercata (almeno apparentemente) ed anzi il mistico afferma di lottare contro di essa; alla fine comunque questa dissociazione avviene e sembra favorire l’emergere di una nuova personalità.

L’elemento che differenzia questi due tipi di estasi sarebbe dunque quello intellettuale. Ma il maggior controllo che hanno i mistici cristiani del loro stato fisico e l’effetto finale di sintesi dello spirito cui conduce l’estasi cattolica non elimina comunque la fondamentale natura sessuale delle loro pratiche. Una forte differenza potrebbe vedersi nel fatto che nel mistico cristiano le sofferenze sono più immaginarie che reali, ma non lo sono del tutto le cosiddette ‘grazie’ spirituali, che hanno forti espressioni corporali e che in buona parte mimano il progresso dell’orgasmo. Se l’atteggiamento mistico, per i suoi aspetti regressivi e pulsionali appare come una sublimazione della pulsione sessuale, non deve sorprendere dunque che il suo linguaggio ed i suoi atteggiamenti, abbiano origine dal contesto erotico del rapporto primordiale madre-figlio. Così l’ascetismo, che dovrebbe essere innanzitutto lotta contro il corpo, finisce per essere perversione del corpo e delle sue attività. Il mistico si sente (e vuole essere) dipendente dallo sguardo Dio, e si sforza di approfondire questo sentimento di dipendenza, che lo incatena. Come di fronte all’amante più sensuale, il mistico esclama: “L’amore deve essere senza riserve”. In tal modo il misticismo si apre del tutto alla perversione, e più esattamente al masochismo.

 

C’è differenza c’è allora fra il masochismo sessuale ed il masochismo psichico? Il masochismo non è necessariamente sessuale, esiste anche nei sentimenti di colpa ed inferiorità, nelle fantasie di umiliazione, nella ricerca di sofferenze da parte dei mistici: atteggiamenti per nulla subiti ma anzi ricercati e provocati nella ricerca di un tipo particolare ed estremo di piacere, frutto di una libido immatura che affonda le sue radici, per alcuni, in un desiderio inconscio di rivivere la beata sottomissione dell’infanzia, con la sua libertà da ogni diretta responsabilità. Chi ne è affetto rinuncia a se stesso, si confina in ambienti sgradevoli, ama i lavori umilianti, veste in modo disadorno, si addossa e sopporta ogni genere di sacrificio, si crea un proprio mondo immaginario in cui rifugiarsi. Il masochista ama ribadire ossessivamente la propria sottomissione al proprio padrone/padrona (o dominus/domina), impegnandosi contrattualmente a prestazioni avvilenti e vergognose, che richiedono strumenti di tortura (verghe, fruste e corde usati quali feticci) o pratiche estreme (legare, appendere). Fra gli stimoli più eccitanti per il masochista si riscontrano l’essere imprigionato e l’essere torturato con il fuoco. Di tutto ciò, non a caso, c’è abbondanza anche nelle vite dei mistici, soprattutto al femminile: giacché il masochismo ha una spiccata prevalenza di genere.

 

Tale il sacro, tale il profano. La protagonista di “Histoire d’O” (l’innamorata che offre tutto di sé stessa e tutta sé stessa, e nella quale molte donne amerebbero peraltro identificarsi) gode nel subire, per una forma di devozione totale e senza riserve al suo amante, qualunque imposizione e sevizia cui è sottoposta, pur essendo libera di rifiutarsi in qualsiasi momento eventualmente lo decida. Destinata a divenire fisicamente la schiava sessuale del suo amante René, O finisce in realtà col divenire schiava della crudeltà mentale di sir Stephen, l’uomo cui René (dopo le prime prove) la affida; e tutto desidera subire tranne che venire liberata da quella felice schiavitù, il cui simbolo è innanzitutto una catena “che, fissata all’anello del collare, la terrà più strettamente fissata al letto più ore al giorno, un mezzo inteso, più che a farle provare dolore, gridare o spargere lacrime, a farle sentire, mediante questo dolore, che non è libera, a insegnarle che lei è totalmente votata a qualcosa che è al di fuori di lei” (HO, pag. 20-21). Apparentemente, non sembra importante che il piacere dell’amante venga contraccambiato; ma in realtà il piacere di O, pur assolutamente masochista, è altrettanto vivo: “se il supplizio era il prezzo d pagare perché il suo amante continuasse ad amarla, desiderava soltanto che fosse contento che lei l’avesse subito, e attese, placida e muta, che la riportassero da lui” (HO, p. 31). Darsi come ci si dà ad un dio, è questo l’unico volere di O: “Egli l’avrebbe così posseduta come un dio possiede le sue creature, che si impadronisce di loro sotto forma di un mostro o di un uccello, dello spirito invisibile o dell’estasi […] era la sua schiava e portava le sue catene con gioia” (HO, pp. 37-38).

Nella sua sottomissione sacrificale, O vivifica il suo amare l’amato fino ed oltre il piacere di soffrire, non con lui, ma per lui: le richieste dell’amante le sembrano infatti più che legittime, per nulla abnormi rispetto agli schemi dell’amore e dell’eros.

È questo ad avvicinare O alle grandi amanti del soprannaturale. Rinunciando infatti al ruolo di madre e moglie asessuata e virtuosa, sia lei che Margherita Maria cercano, in modo analogo, la propria (illusoria) libertà nella sottomissione assoluta, al di là del piacere fisico di soffrire, e perfino aldilà dello stesso masochismo.

 

Riferimenti:

SA: Margherita Maria Alacoque: Scritti autobiografici, Edizioni Apostolato della preghiera, Roma 2003.

HO: Pauline Réage, Storia di O, Bompiani, Milano, 1987.