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Deus sive natura

di Francesco D’Alpa 

[L’ATEO, 2/2018]

 

Questa celebre espressione, usata dal filosofo olandese Baruch Spinoza (1632-1677), definisce l’identità fra Dio (sostanza infinita, ‘causa sui’) e la Natura (unica realtà che tutto comprende e nulla lascia al di fuori di sé; ciò che è in sé e per sé si concepisce). Il dio di Spinoza non è personale e trascendente; non c’è distanza fra lui e il mondo; è la realtà stessa considerata nella sua totalità, con tutte le sue infinite espressioni e manifestazioni; è causa immanente e non trascendente.

Spinoza suddivide la Natura in ‘Natura naturans’ (come causa primigenia dell’universo; ciò che per comodità definiamo Dio con i suoi attributi), e ‘Natura naturata’ (l’insieme dei suoi stessi effetti).

Per questo è stato considerato dai più un panteista (anche se il suo ‘panteismo’ si discosta da quello della filosofia greca, giacché il suo Dio non si identifica con ogni singola parte della natura), e da taluni perfino un ateo (al limite un ‘ateo virtuoso’, in considerazione della sua statura morale).

Questa concezione della natura (uomo compreso) è indubbiamente materialistica e meccanicistica.

Dio, potenza impersonale, non può produrre nulla fuori di sé, altrimenti la sua assolutezza sarebbe limitata; agisce per una necessità legata al suo stesso essere, senza alcun fine e non per una propria volontà. Esiste un legame strettissimo fra lui ed i fenomeni mondani (sia spirituali che materiali). La perfezione (vera o apparente) che ammiriamo nella natura non è dunque il frutto di un deliberato atto creativo. Ogni cosa in natura tende solo al proprio utile. L’idea che esista un finalismo è frutto di un pregiudizio: l’uomo individua nella natura cose che gli sono utili, e congettura che sia stato il suo dio antropomorfo a mettergliele a disposizione; ed al tempo stesso interpreta come punizione divina ciò che va contro il suo utile (ad esempio le malattie e le calamità).

In quanto dipendente dalle leggi universali, senza usufruire di alcun privilegio, il comportamento dell’uomo deriva solo da un continuo sforzo (‘conatus’) di autoconservazione (‘volontà’, se riferito alla mente; ‘appetito’, se riferito al corpo); dall’appetito derivano (come ‘affetti primari’) la letizia o la tristezza.

Questa concezione ha importanti riflessi sull’etica. A differenza di quella cristiana, nella quale esistono dei ben definiti concetti di bene (ciò che è conforme alla volontà di Dio) e male (ciò che non lo è), questi termini hanno in Spinoza un senso quanto mai relativo. Dio non è un giudice; per lui, bene e male non esistono come valori assoluti; l'uomo, per natura, come tutti gli esseri viventi, persegue solo la personale conservazione; ed a ragione di ciò è portato ad attribuire un valore ed un senso alle cose in relazione alla loro utilità.

Qui, in particolare, si consuma la rottura con il cristianesimo, secondo il quale invece Dio ci ama infinitamente, conosce tutto di noi, guida la nostra esistenza fino nei minimi dettagli tramite la Provvidenza, e tutte le forze dell'universo sono al suo servizio per il nostro bene.

Per Spinoza, invece, la natura non è provvidenzialmente buona per l’uomo, né risponde ai suoi desideri. Occorre dunque studiarne le leggi, proprio per renderla abitabile ed utile. L’uomo non è libero, ma inserito in una necessaria concatenazione, e la sua libertà sta nell’agire secondo la trama in cui si trova, spinto dalla volontà di autoconservazione. Non ha dunque alcun senso affidarsi passivamente al corso degli eventi.

In quanto alle religioni, pur non mostrandosi blasfemo, Spinoza inevitabilmente nega l’ispirazione e rifiuta l’autorità della Bibbia, che considera uno strumento prodotto per ottenere l’obbedienza da coloro che sono incapaci di seguire la ragione; rifiuta il primato morale della Chiesa; nega la possibilità dei miracoli, che violerebbero le leggi immutabili del creato. Lo stesso termine ‘Dio’ (per quanto ancora adoperato) non ha in fondo più per lui alcun significato. Non a caso Nietsche (che invece porta ben oltre la sdivinizzazione della natura) gli contesterà proprio d’avere continuato ad usarlo, e di non avere adoperato la più appropriata formula «chaos sive natura» (ritrovata in un suo quaderno di appunti), nel senso che non esiste neanche un odine intrinseco nella natura, e dunque nessun ordine cui l’uomo appartenga.

Il contributo di Spinoza allo sviluppo del pensiero moderno è indiscutibile; rappresenta un passaggio importante in quel processo di affrancamento della filosofia dalla religione, che troverà il suo culmine proprio nel grido di Nietsche: «Dio è morto; e noi lo abbiamo ucciso». Una visione della realtà e della natura prossima a quella della scienza contemporanea, secondo la quale l’universo è costituito da una materia in caotica espansione, e tutto è regolato da leggi intrinseche alla materia stessa (composizione chimico-fisica, genetica, etc…), e dai rapporti di interazione reciproca e di interdipendenza fra i vari elementi.