Difendere la vita biologica, oltre la persona?

Dopo la morte di Eluana Englaro, i veleni del caso serpeggiano ancora sui media (come accadde anni fa negli Stati Uniti, per l’analoga vicenda Schiavo), contrapponendo libertà di scelta e princìpi inderogabili: da una parte il desiderio della famiglia (con il sostegno della maggior parte dell’opinione pubblica) di porre fine all’innaturale sopravvivenza di un corpo senza vita personale; dall’altra la pretesa di una minoranza d’italiani (ma della maggior parte dei cattolici) di impedire questa soluzione.
Le ragioni di Beppino Englaro, padre di Eliana, erano e sono condivisibili, legittime e piene di buon senso; e nessuno più di lui ha sopportato il peso di una tale scelta.
Sul campo opposto, il clero cattolico ed i laici devoti affermano di avere condotto una battaglia per la vita: contro la pretesa laicista di assassinare una persona che era in buona salute, nonostante si trovasse in coma, e che un giorno o l’altro avrebbe potuto risvegliarsi (come ha sostenuto ad esempio mons. Fisichella).
È bene ricordare che Eluana Englaro non si trovava in coma, condizione nella quale l’attività cerebrale superiore è solo sospesa ed in buona parte dei casi viene ripristinata; ma era piuttosto in stato vegetativo persistente, situazione ben più grave ed abbastanza diversa, dovuta ad un danno irreversibile delle strutture nervose (soprattutto la corteccia cerebrale) che sottendono alle attività mentali, alla coscienza, ed alla personalità. Il suo organismo conservava efficienti (in parte) solo attività che fanno parte della vita vegetativa (inclusi il ritmo sonno-veglia, le attività ormonali e le funzioni viscerali).

Difendendo la vita di Eluana, la chiesa ha difeso la persona Eluana? La chiesa si è sempre interessata del soprannaturale (l’unico argomento che ne giustifichi la fondazione) ed in particolare di anime, che intende condurre alla salvezza eterna. Per la chiesa il corpo è sempre stato invece quasi un ingombro, un peso sopportabile solo in vista dell’aldilà, e non a caso molti santi hanno desiderato disfarsene (con mezzi che vanno dal martirio al rifiuto del cibo). Ma oggi si parla sempre più di persona, insieme di spirituale e corporeo, tacendo dell’anima, relegata fra le anticaglie del pensiero religioso.
Per la scienza laica l’anima (se ancora vogliamo adoperare questo termine) è espressione delle attività del cervello, e svanisce con il cessare della sua funzionalità; per i preti l’anima (o la persona) esiste anche oltre il corpo, mantenendo con esso (o con ciò che di esso rimane) un misterioso legame.
Difendendo la vita di Eluana, il clero si è appellato in sostanza a tre cose: (a) la presunta non accertata volontà di Eluana di rifiutare lo stato in cui era precipitata, (b) il principio della non disponibilità della propria e della altrui vita, (c) il principio teologico della piena sussistenza, in qualunque stato si trovi il corpo, della persona.
Sui media, la prima e seconda argomentazione sono state ben evidenziate. Ma la vera argomentazione clericale avrebbe dovuto essere la terza: Eluana per la chiesa andava rispettata in quanto ancora persona, sia pura in modalità non direttamente percepibile. Era questo di fatto ad essere imposto ai medici. Per come infatti viene sempre più ribadito dalla chiesa, esistono una medicina cattolica ed un una medicina non cattolica: la prima considera l’uomo come insieme di anima e corpo, la seconda come un qualunque essere vivente (dunque senza una sua esclusiva anima razionale); per la prima, la persona non cessa con la morte, per la seconda la persona si dissolve alla morte. Dunque, per il magistero cattolico, e conseguentemente per i medici cattolici, l’anima (con le sue esigenze) è prioritaria rispetto al corpo.
Nel caso Englaro, le posizioni laiche sono state invece coerenti con l’impostazione accettata dalla scienza secondo la quale al cessare delle funzioni cerebrali l’individualità si dissolve irreversibilmente e non ha senso mantenere in funzione alcuni organi.

Stranamente, le posizioni tradizionali si sono oggi capovolte. Attualmente la medicina è consapevole di potere intervenire efficacemente sui processi della nascita e della morte, che la chiesa riteneva (e vorrebbe) riservati a Dio; ma nel contempo riconosce il limite rappresentato dalla fine della persona. La chiesa pretende invece che la funzionalità del corpo venga mantenuta oltre ogni limite sensatamente accettabile, in quanto per lei sia nel coma che nello stato vegetativo persistente, esisterebbe ancora la persona.
Il clero sembra dunque avere dimenticato uno dei suoi compiti tradizionali: l’accompagnamento alla buona morte, al sospirato aldilà dopo la prigione del corpo. Sembra sempre più preoccupato dell’orizzonte terreno che di quello metafisico. E dunque, paradossalmente, si invertono le parti fra etica religiosa e tecnicismo scientista, fino a pochi anni fa accusato di volere forzare i limiti della sopravvivenza naturale.
Nel dibattito sugli stati di morte sospesa c’è un grande assente: il soprannaturale. Il religioso che punta il dito contro lo scientismo, contro il relativismo etico, contro la cultura della morte ha messo da parte (o finge di avere messo da parte) la tradizione cui ha scelto di aderire e sulla quale si è formata la sua coscienza etica, e che invece dovrebbe essere sempre compreso nell’argomentazione.
Dunque, ogni religioso che intenda pronunciarsi sulle questioni etiche rilevanti, prima di reclamare il diritto di criticare le proposte che vengono dal mondo scientifico relativista e dalla società laica, ha innanzitutto il dovere di proporre e giustificare un paradigma alternativo che tenga conto innanzitutto del soprannaturale; una rinuncia a ciò, rende pretestuosa ogni critica alla scienza materialista.

Fra il tanto (e troppo) che si è detto e si è scritto (a proposito ed a sproposito) sul caso di Eluana Englaro, molto merita un commento; a cominciare dalle grandi questioni.
La prima cosa che viene in mente è il tanto declamato rispetto per la vita. Come ben sanno i preti, anche la morte è un aspetto della vita perché, senza il ricambio degli organismi, il mondo che conosciamo finirebbe presto. Lo stesso clero si è sempre dichiarato contrario al desiderio dell’uomo di prolungare indefinitamente la propria vita. Dunque, il rispetto della vita dovrebbe consistere innanzitutto nel lasciare che essa inizi e finisca secondo le proprie regole, senza prevaricarle (così come coerentemente sostiene la campagna cattolica contro la contraccezione).
Il rispetto della vita dovrebbe comunque attuarsi secondo scienza e coscienza. Ebbene, la prima si pronuncia a larga maggioranza ed inequivocabilmente in favore della sospensione del supporto vitale nei casi estremi di Stato Vegetativo Persistente (si noti come la coscienza della maggior parte degli italiani vada nella stessa direzione). Vi è dunque un problema di competenze: e quale competenza vale più, in questi casi, di quella dei medici, per stabilire se la vita umana e personale non sia ormai irrimediabilmente perduta?
Non potendosi appellare (se non speciosamente) ad argomenti medici, clericali e laici devoti ricorrono ad argomenti legali. Primo fra tutti, ed essenziale, la mancanza di una volontà certa. Mancherebbero infatti le prove incontestabili  di una volontà in tal senso da parte di Eluana, e le scarne testimonianze rifletterebbero un esprimersi generico. Ma se anche fosse risultata una volontà scritta di Eluana, i difensori ad oltranza della vita si sarebbero arresi? Certamente no, considerati i precedenti: infatti era più che certa la volontà di Welby, ed era più che certa la volontà di Coscioni. Ma per la chiesa neanche questa è determinante. Ed anche se si arrivasse un giorno ad una legge sul testamento biologico la chiesa sosterrà sempre che i diretti interessati potrebbero avere cambiato opinione successivamente e senza renderlo noto, e dunque continuerà a contestare le dichiarazioni di volontà. Così, al di sopra della volontà del malato verrà sempre sbandierato il parere del religioso di turno, presentato come volere di Dio che solo i suoi rappresentanti in terra conoscerebbero e sarebbero in grado di interpretare. Per i religiosi questa sarebbe la verità, derivata da testi che nel loro insieme vengono considerati sacri; per noi laici si tratta invece di pura ideologia, quanto per ogni altra pretesa di ridurre la realtà a personali paradigmi. E nessuna ideologia è tanto perniciosa quanto quella che sorregge precisi interessi, siano essi materiali o immateriali. L’ideologia religiosa si vanta non ultimo di avere sposato la ragione, che ne confermerebbe la fondatezza. Ma quale diversa ragione dimostra in tali casi il comune buon senso, che certo non ha difficoltà nel riconoscere in un corpo pressoché inerte la mancanza di una vera vita!
Dunque, per volontà tutta umana spacciata per divina, la vita resterebbe un bene indisponibile, o almeno disponibile solo nei modi che la chiesa consente (martirio, legittima difesa, pena di morte legale, guerra giusta...).
Ma come si presenta questa vita cui tutti siamo obbligati, qualunque sia il suo fardello? Tutte le vite sono degne, secondo la chiesa; e lo stato laico dovrebbe pronunciarsi nel senso che tutte le vite hanno gli stessi diritti di fronte alla legge. Ma dire vita è dire persona? Si discuterà pure sulla dignità della vita allorché si parla di una persona; ma senza i connotati della persona, la vita di un corpo che vegeta è realmente degna, o almeno lo è per tutti?
Quali doveri dovrebbe avere l’uomo, di fronte a tale situazione pietosa? Il primo, per ogni buon cristiano, sarebbe quello di assicurare una buona morte, facilitando dunque il distacco dell’anima dal suo corpo. Vi è infatti maggiore compassione nell’imporre agli altri un inutile vegetare, onde rispecchiarsi in quel corpo che ha le apparenze della sofferenza in croce? oppure nel lasciarlo morire completamente, appunto compassionevolmente? Senza dimenticare la compassione per la famiglia; quella famiglia oppressa da un immane senso di sconfitta, condannata ad una prova disumana nel suo essere legata ad una vita che non è più esistenza vera. E tutto ciò solo per proteggere l’orgoglio di chi pontifica sulla vita a tutti i costi, da lontano, e certo con distacco emotivo!
Tutti questi moralisti devoti, al più rientrano nella categoria dei battezzati. Fra di loro si trovano pochi veri cattolici praticanti; la gran parte invece non lo è, pur essendo recettiva agli ordini del clero, quanto si tratta di prescrivere ad altri norme e convincimenti morali. Quando invece la morale cattolica va contro i loro propri interessi (soprattutto in tema di separazioni, divorzi, convivenze, famiglie allargate, edonismo, promiscuità sessuale, aborto, etc), se ne ritengono pacificamente esentati, o quanto meno invocano quel diritto alla privacy che negano ad altri.
La stragrande maggioranza degli italiani e degli stessi cattolici, secondo tutti i sondaggi, sta in coscienza e liberamente dalla parte di Beppino Englaro; ma la chiesa, quale teocrazia divinamente ispirata, non può e non vuole essere democratica ed accettare l’evidenza.

Veniamo ai termini più abusati, ovvero quelli adatti a muovere i sentimenti e le emozioni di chi non guarda agli aspetti più alti della questione, e recepisce la sola predicazione spicciola. Fra tutte le parole e le frasi pronunciate a proposito o a sproposito, probabilmente primeggia l’espressione cultura della morte; così definita proprio da quel clero che, seguendo la tradizione cattolica, ha al centro dei suoi interessi la morte sacrificale di un Dio che ora attende la nostra morte, che penalizza e demonizza la nostra vita quotidiana promettendo ricompense ultraterrene cui sempre in meno credono.
Questi corifei della vita come bene definiscono assassinio il concedere ad una vita ormai spenta di concludersi naturalmente. Ma accompagnare la morte non è lo stesso che privare ingiustamente e proditoriamente qualcuno della vita. Quando la vita viene oppressa in nome di dio si parla (nei sacri testi) di giustizia divina; e la pena di morte è stata sempre vista ed accettata dalla chiesa proprio come applicazione di una giustizia che parte da dio. Ma come si definisce il privare qualcuno ingiustamente e proditoriamente di una morte naturale?

In difficoltà al suo interno per le inestinguibili diatribe teologiche, il cristianesimo insiste senza remore nella sua abituale invasione di campo, pretendendo che i medici decidano in base a cosa la chiesa crede debba essere e fare la medicina; richiamando al rispetto della deontologia medica, per quel tanto che essa è in sintonia con la catechesi. Per i sudditi dell’ideologia clericale le cure e terapie cui era sottoposta Eluana (alimentazione parenterale, evacuazioni forzate, cateterismi, terapie anticoagulanti e anticonvulsivanti, e quantaltro) non rientrerebbero inoltre fra i trattamenti medici.
Lasciare che la natura svolga il suo corso, in casi come quello di Eluana, per la chiesa equivale ad infliggere una inutile sofferenza: ma la sofferenza richiede un cervello funzionante, una persona che soffra; e ciò certo non sussiste nello Stato Vegetativo Persistente. Terry Schiavo sarebbe per i clericali la più illustre vittima innocente della barbarie eutanasica. Ma secondo una poco citata autopsia, nel suo capo c’era un grande vuoto al posto del cervello.
Per Eluana si è parlato con crescente insistenza di disabilità, notevole ma non necessariamente definitiva; oppure di fragilità; nel senso che chi si trovi in SVP sarebbe solo un essere più fragile degli altri, e per questo necessitante di maggiore assistenza. Dunque si è ipotizzato un qualche recupero (ed addirittura la possibilità un giorno di avere un figlio!). Si è sostenuto che la sua non era una malattia terminale, ovvero tale da portare alla morte; senza badare al fatto che, assai più semplicemente, la vita della persona Eluana era già finita. Si è parlato sempre più, ed a sproposito, di eutanasia, che darebbe il via ad un vero e proprio programma di eliminazione di malati e disabili.
Si è dimenticata invece la denuncia dell’accanimento terapeutico, disprezzato decenni fa dalla chiesa nella sua battaglia contro il tecnicismo disumanizzante della medicina; e non si è colto quanto accanimento vi sia stato nelle messe in piazza, nei cortei, nelle bottiglie d’acqua offerte ad Eluana, nei proclami, nelle prediche, nelle scomuniche: un vero e proprio calvario (per la famiglia Englaro), che dopo duemila anni di prediche i cristiani non sanno riconoscere nel proprio vicino e nel quotidiano. Si pretendeva di non sospendere le cure ad un corpo che non ne traeva alcun vantaggio; ma perché è stata invece sospesa la morte?

Si è parlato sempre del corpo di Eluana, ma nessuno ha parlato della sua anima, questa entità misteriosa, di cui ha sempre discusso la religione, come se il clero ne sapesse qualcosa. Dov’è l’anima di Eluana (ma anche dov’è la nostra)? Che fa? Che vuole da noi? Non vorrebbe forse (se c’è) staccarsi da quella carne che la lega inutilmente alla materia?
No, meglio tacerne! La religione cattolica ha dimenticato il soprannaturale, la pietà suggerita dal sopranaturale, l’eroica rassegnazione e la speranza di tanti che si s0no addormentati nel sonno della morte?
Da quanti credenti la morte è stata considerata un bene! Perché non dovrebbe esserlo anche in questo caso? E perché comunque non consentire ad ognuno di scegliere liberamente (come dio in fondo vorrebbe!) quello che per lui è un bene, se ciò non è di danno agli altri?

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 63 (3/2009)