Il conflitto prossimo venturo

Abolita la Santa Inquisizione, non per questo la Chiesa ha cessato la sua lotta alla scienza, in nome di una collezione di dogmi (o meglio: di pregiudizi religiosi). I tribunali di oggi sono i media; i suoi verbali sono le innumerevoli pubblicazioni pseudoscientifiche in cui si mettono in discussione i risultati della ricerca ‘areligiosa’; i giudici sono i milioni di fedeli prigionieri del ‘senso comune’, istradato e condizionato dal clero.
Quale sarà il prossimo processo?
Per cercare di capirlo riflettiamo su cosa ha causato il più famoso di essi. Il sistema copernicano, difeso e perfezionato da Galileo, metteva in discussione essenzialmente due cose: la presunta centralità della terra nell’universo, ed il principio di autorità ed inerranza della “Bibbia”. Secondo un certa lettura del processo, in effetti Galileo sarebbe stato costretto all’abiura più per essersi reso colpevole di insubordinazione all’autorità papale e cardinalizia che per gli altri motivi; ma il dato di fatto è che con Galileo si era dannata l’autonomia delle scienze.
Un successivo epocale processo avrebbe potuto essere quello a Darwin; ma oramai i presupposti erano cambiati: “L’origine delle specie” non abbisognava di alcun ‘imprimatur’, come invece nel caso di Galilei, e l’Inquisizione aveva smesso da un pezzo di dannare le acquisizioni scientifiche. Non per questo lo scontro fu meno fragoroso, come prova il fatto che non si è ancora concluso. Anche Darwin aveva contraddetto il senso letterale della “Bibbia”; ed alla pari di Galilei aveva contestato una centralità, quella dell’uomo nella natura.
Se è possibile cogliere un filo conduttore nella storia del conflitto fra religione e scienza, essendo immutate le ragioni di opposizione della religione alla scienza, il conflitto prossimo venturo fra dogma e dato scientifico riproporrà lo schema dei conflitti galileiano e darwiniano, e dunque vedrà (a) falsificare l’idea di una qualche altra ‘centralità’ proposta dalle “Sacre Scritture” e (b) demolirne ulteriormente il presupposto di ‘verità’ in qualcosa che attiene alla fede stessa. Su questi presupposti, a mio avviso, al centro della discussione non potrà che esservi l’ ‘Io’, o meglio, se vogliamo usare un termine più vicino al linguaggio della Chiesa, la cosiddetta ‘anima’. Ma in che senso? Ho già avuto modo di esporre su queste pagine come il concetto di anima abbia progressivamente perso significato all’interno del mondo cattolico [1]. Ad esso si è progressivamente sostituito quello di ‘persona’ (anche come unità mente-corpo o identità psico-biologica), senza peraltro giungere ad una precisazione di come la persona si collochi nella dimensione escatologica (in pratica: dove finisce l’idea di un aldilà individuale, e cosa del nostro essere passerebbe in effetti in questo aldilà?). Ma il nodo è ancora più in là. Ho appena accennato ad una centralità posta in discussione; ebbene, questa centralità cui mi riferisco è proprio quella dell’Io: ciò che sembra senza ombra di dubbio alla guida della persona, ma probabilmente non lo è; o almeno non quanto e nei termini in cui si è finora creduto.

Ecco dunque la nuova rivoluzione, quella causata dall’avanzare delle neuroscienze.
L’epoca dello studio morfologico del cervello è oramai lontana; quella dello studio degli ‘umori’ e ‘fluidi’ ha ceduto il passo a tecniche che permettono di ‘vedere’ in tempo reale  come funziona il ‘cervello’ quando è in azione la ‘mente’, con la convinzione di riuscire un giorno a ridurre definitivamente l’una all’attività dell’altro. Da meno di venti anni è sufficientemente nota, anche ai non addetti ai lavori, la possibilità di associare particolari immagini del cervello ottenute con tecniche neuro funzionali a specifiche attività mentali ed a specifici comportamenti. In tempi più recenti si è giunti ad individuare, con fini analisi neurofisiologiche, l’attivazione di particolari cellule motorie cerebrali, i cosiddetti ‘neuroni specchio’ in risposta a stimoli aventi un particolare significato, quale atto preparatorio ad una azione ma in assenza di qualsivoglia partecipazione cosciente. [2] Dunque, il cervello si attiva verso un fine anche se soggettivamente non percepiamo questo processo. Tutto ciò con buona pace delle vecchie teorie sulla motivazione degli atti. Questo tipo di attivazione è presente in tutti i cervelli animali (sia pure con aspetti particolari in alcuni di essi) ed è sempre più specializzata in parallelo con l’aumento della complessità cerebrale. Nel concreto (tanto per fare un esempio) prima ancora che ci venga in mente di prendere un oggetto, il nostro cervello si è già preparato a farlo (e, sostanzialmente, ci spinge a farlo); ma, andando oltre, molti nostri atteggiamenti puramente ‘mentali’ come l’estroversione, l’aggressione, la pietà o il razzismo possono finire con l’essere spiegati così, come l’emergere di una tendenza iscritta nella biologia cerebrale. Un caso limite è la mancanza di empatia nei soggetti autistici, probabilmente spiegabile oggi proprio con una ipofunzione del sistema dei neuroni specchio.
Filosofia, morale e religione debbono necessariamente tenere conto di questo nuovo e sconvolgente (almeno per gli spiritualisti) campo di conoscenza, molto più di quanto la medicina (almeno così si pretendeva) doveva rendere un tempo conto alla filosofia. La religione deve inevitabilmente cedere il campo alla neurofisiologia; o altrimenti immaginare qualcosa di diverso per dare ancora un proprio senso a termini quali ‘volontà’, ‘responsabilità’, ‘libera scelta’. E come definire stati d’animo come serenità, felicità, speranza, quando è oramai chiaro quanto essi dipendano dal biochimismo?

Ma torniamo indietro nel tempo, a Freud, che per primo, in un certo senso, ha messo in discussione l’unicità dell’anima. La sua ipotesi dell’esistenza di un inconscio ha frantumato l’identità soggettiva, l’idea di una monolitica esperienza di sé, presente in ogni uomo; ma, in maniera più rilevante, ha contestato l’opinione che le pulsioni siano parte costitutiva dell’Io, pienamente dipendenti dalla volontà e dalla responsabilità dell’individuo; ha minato alla base l’idea che le categorie del bene e del male siano assoluti universali e apprese dall’Io cosciente. L’attività neurofisiologica (prima ancora che quella biochimica) cerebrale incosciente appare invece oggi, chiaramente, una precondizione (o addirittura la precondizione per eccellenza) della capacità morale di ciascuno. Ciò potrebbe portare, è facile immaginarlo, ad una sorta di deresponsabilizzazione di fronte a norme morali culturalmente condivise e tanto più a quelle su base religiosa; ad esempio nel cristianesimo, che coglie in ogni atto una scelta assolutamente libera dell’individuo di fronte ad un bene e ad un male chiaramente percepiti e perfettamente contrapposti. Se l’uomo non ha pieno controllo e piena coscienza delle sue azioni, le categorie del male e del peccato (dominanti nella teologia cattolica) vengono attaccate nel loro fondamento.
La rivoluzione freudiana ha corroso, a tratti con violenza, il pensiero teologico-morale del Novecento, che è dovuto venire a patti con esso. Ma non è bastato; un nuovo fronte avanza. Dopo avere demolito l’idea di un intelletto immateriale, dimostrando che la memoria, l’attenzione, il ragionamento hanno una chiara base biologica (fra l’altro comune a tutti gli esseri viventi che ne dispongono), si  è cominciato a capire quale sia la base del nostro comportamento morale; non solo, ma anche di come questa base biologica della morale determini i nostri atti ancor prima di averne una cognizione soggettiva, o addirittura al di fuori di essa: di fatto, esiste una morale prima della morale (o anche una base morale più ampia di quella percepita), così come per Freud esisteva un’unità psichica ben più ampia dell’Io cosciente.
Chi volesse sostenere ancora un punto di vista tradizionale religioso potrebbe facilmente obiettare che in fin dei conti i presupposti morali iscritti nella nostra biologia non rappresentano altro che una dimostrazione del fatto che esiste evidentemente una morale naturale. Ma il ragionamento non vale. Fra l’altro ci sarebbe da discutere sul fatto che, essendo la nostra attuale, per il pensiero cristiano, una natura decaduta, sarebbe illusorio cercare nel nostro biologico le autentiche tracce della natura originaria.
Ed ancora, le regole ‘morali’ deducibili dallo studio dell’attività dei neuroni specchio non riflettono quelle codificate dalla tradizione teologica. In particolare, esse non sono teleologiche, né finalizzate ad uno scopo ultraterreno; non riflettono alcuna morale universale ed appaiono invece strettamente legate alla sopravvivenza individuale e di gruppo; e sono pienamente intrecciate con la dinamica dell’evoluzione da cui sono state selezionate.

Per la Chiesa è invece estremamente importante mantenere fede al principio di unità e totalità psichica. Lo sosteneva fermamente, ad esempio, Pio XII nel 1953 quando affermava che “le diverse facoltà e funzioni psichiche si inseriscono nell’insieme dell’essere spirituale e si subordinano alla sua finalità […] l’esistenza di ciascuna facoltà o funzione psichica trova la sua giustificazione nel fine del tutto”[3].  L’evidenza fornita dai neuroni specchio è assolutamente opposta: ogni elemento di questo sistema si attiva seguendo una sua personale logica. Pio XII andava più in là, sostenendo che “questi dinamisni possono essere nell’anima, nell’uomo, ma tuttavia non sono né l’anima né l’uomo [..] la natura ne ha affidato la direzione al centro: all’anima spirituale, dotata di intelligenza e di volontà […] si negherebbe una realtà ontologica e psicologica, contestando all’anima il suo posto centrale”. In pratica, per Pio XII l’attività delle parti costitutive dell’uomo sarebbe subordinata ad una legge di “origine ontologica e metafisica”; non vi sarebbe opposizione fra metafisica e psicologia, perché “lo stesso psichico appartiene al dominio dell’ontologia e del metafisico”; ed infine “sarebbe errato stabilire per la vita reale norme che si allontanassero dalla morale naturale e cristiana”.

La teoria dei neuroni specchio può invece rendere conto anche di dinamismi psichici più raffinati, laddove individua nella loro attività la molla precostituita dell’agire. [c] Il più caratteristico dei comportamenti oggi spiegabili in base al funzionamento di queste cellule è l’empatia, ovvero quell’atteggiamento che porta a riconoscere negli altri modalità comportamentali ed esperienzali a noi note introspettivamente. Fra le tante istanze in gioco potremmo inserire in fin dei conti anche la propensione alla religione (o meglio alla religiosità). Stando ancora al discorso di Pio XII, per i cristiani, invece “la conoscenza naturale e soprannaturale di Dio e il suo culto, non procedono dall’incosciente o dal subcosciente né da un impulso affettivo, ma dalla conoscenza chiara e certa di Dio mediante la sua rivelazione naturale e positiva”. Così la pensavano oltre due millenni prima i redattori del “Libro della Sapienza”, e così asseriscono l’ “Epistola ai Romani” di Paolo e l’Enciclica “Pascendi dominici gregis” di Pio X.

Forse Pio XII aveva comunque una qualche percezione dei conflitti a venire, ed in un certo senso si mostrava più aperto di quanto non lo saranno poi i suoi successori nel confronto con l’etica medica. Di fronte all’opera demolitiva dei presupposti di una naturale religiosità, operata dalla psicoanalisi, infatti aggiungeva: “non si deve certo incriminare la psicologia delle profondità se essa si impadronisce del contenuto dello psichismo religioso  e si sforza di analizzarlo e di ridurlo in sistema scientifico, anche se siffatta indagine è nuova e se la sua terminologia non ha riscontro nel passato […] se il risultato fosse positivo non si dovrebbe dichiararla inconciliabile con la ragione o la fede […] se pur si trattasse di un dinamismo che riguardasse tutti gli uomini, tutti i popoli, tutte le epoche e tutte le culture: quale e quanto apprezzabile sussidio per la ricerca di Dio e della sua affermazione!”. Chiaramente, l’impatto ‘forte’ delle neuroscienze sul pensiero religioso era ancora lontano da venire; lo psichismo era ancora contrapposto al biologismo, e la teologia sentiva di potere reggere lo scontro con quella che in definitiva veniva ritenuta dai clericali non molto più che una ‘altra religione’. Ma che accadrà quando il presunto “ordinamento trascendente dello psichismo verso Dio” così caro ai cattolici dovrà definitivamente confrontarsi con la nozione divenuta ‘ovvia’ di una insopprimibile tendenza dei neuroni a cogliere specifici segnali e a predisporre o iniziare autonomamente un’azione precodificata?
I critici della scienza possono ancora obiettare che preparare un’azione non è compiere la stessa azione. Ma ancora una volta è solo una questione di gradualità. Demolito il dogma della pura ‘natura psichica’ (= pertinente all’anima) dello psichismo, sarà giocoforza giungere ad individuare livelli funzionali ed espressivi più alti. Si capirà meglio come l’architettura cerebrale sia la prima ed essenziale base costitutiva dell’identità personale ed il fondamento dello sviluppo del senso morale, essendo fin d’ora noto che “la vita morale –la responsabilità dei nostri atti e delle loro conseguenze, il modo in cui le nostre scelte esprimono o tradiscono le nostre credenze e desideri, il nostro senso della vita – inizia molto prima della volontarietà e dell’obbedienza ad una norma”. [4] I giudizi sulla ‘umanità dei nostri comportamenti’ e sulla ‘responsabilità personale degli atti’ dovranno tenerne sempre più conto in futuro, con buona pace delle idee accumulatesi in passato.
Le neuroscienze sono oggi l’equivalente del cannocchiale di Galileo ieri; e chi non guarda con doverosa attenzione ai risultati di questo straordinario mezzo di conoscenza si chiude al confronto con quella che egli stesso dovrebbe definire ‘verità’. Come il cannocchiale ha mutato irreversibilmente l’immagine del mondo esterno all’uomo, le neuroscienze stanno radicalmente mutando l’idea del mondo interno all’uomo, l’idea dell’uomo su se stesso. Quelli che ancora si preferisce definire ‘correlati neuronali della mente’ sempre più appaiono veri e propri processi neuronali costitutivi della mente. Ma la ‘neuroetica’ non è scientismo; sicuramente non lo è più di quanto l’etica religiosa rifletta sopravvivenze di un antico orizzonte conoscitivo e morale.
Quando la consapevolezza di questo nuovo e rivoluzionario approccio alle scienze dell’uomo sarà sufficientemente diffusa, la nuova ‘rivoluzione’ sarà a buon punto e ci si potrà avviare alla successiva, con i  nuovi inevitabili ‘tribunali’ e ‘processi’ (giacché è lecito attendersi che in qualche modo le religioni riusciranno comunque a sopravvivere). Ma la oggi nascente ‘neuroetica’ avrà già compiuto buona parte del suo lavoro di sostituzione delle vecchie ‘etiche’ filosofiche e religiose.

[1] D’Alpa F.: L’anima cristiana. L’Ateo, 4/2007 (52), pp. 11-13.
[2] Per una ampia rassegna sull’argomento si veda: Rizzolatti G., Sinigaglia C.: So quel che fai. Il cervello che agisce ed i neuroni specchio. Raffaello Cortina Editore, Milano , 2006.
[3] Pio XII: Discorso al Congresso Internazionale di Psicoterapia e Psicologia clinica. Roma, 15 aprile 1953. In: Apologetique. Nos raisons de croire. Réponses aux objections. Bloud & Gray, Parigi, 1948. Ed. it.: Enciclopedia apologetica. Edizioni Paoline, Alba, 1954, pagg. 1275-1280.
[4] Boella L.: Neuroetica. La morale prima della morale. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p. XVII.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 64 (4/2009)