Religiosità e rifiuto alimentare

di Francesco D’Alpa 

[L’ATEO, 4/2018]

 

Il digiuno rituale ha sempre avuto grande importanza nelle religioni, ed in particolare in quella cristiana, dove assume il carattere di imitazione dell’itinerario di Cristo, che all’inizio della sua predicazione avrebbe digiunato quaranta giorni nel deserto. Ma spesso alla sua origine troviamo tratti psicopatologici della personalità (in genere manifestazioni depressive) che tuttavia vengono idealizzate dai penitenti (e purtroppo anche dal loro entourage) come momenti di volontaria chiusura al mondo e di rafforzamento della spiritualità. Ed un distorto rapporto con il cibo è quasi una costante nelle biografie dei mistici (soprattutto al femminile), sia sul piano simbolico (l’esasperato ricorso all’eucaristia) che su quello somatico (il disprezzo di tutto ciò che attiene alla corporeità).

Fra il quattordicesimo ed il quindicesimo secolo alcune donne, quali Caterina da Siena, Caterina da Genova e Colomba da Rieti, divennero rapidamente incapaci di mangiare; Angela da Foligno perdeva l’appetito per ogni cibo corporeo quando si raccoglieva in preghiera; Rita da Cascia cercò inizialmente di superare il risentimento verso l’iracondo marito mediante il digiuno, e col tempo non mangiò quasi più (le sue compagne di religione ritenevano che fosse sostenuta dalla comunione frequente); Chiara Gambacorta di Pisa alterava con la cenere il sapore dei cibi e si infliggeva dolore fisico per vincere i morsi della fame; Caterina da Genova si avvaleva dell’agarico e dell’aceto per disgustarsi.

A partire soprattutto dalla metà circa dell’Ottocento la comunità scientifica ha mostrato un crescente interesse per questi racconti biografici, che presentano molto materiale di interesse psichiatrico, ad esempio per la elevata frequenza dei tratti caratteriali dell’isteria e di veri e propri disturbi alimentari primitivi, la cui presenza (a differenza di quanto viene proposto in molte analisi apologetiche attuali) appare tutt’altro che irrilevante e costituisce in molti casi un aspetto centrale della cosiddetta ‘santità’. L’astinenza alimentare grave su base religiosa è stata dunque correlata alle più comune anoressia ed alle sue svariate cause, organiche o psicologiche.

Ciò ha suscitato la stizzita reazione dei religiosi, che hanno respinto qualunque relazione fra santità e malattia, ritenendo di potere facilmente screditare le ipotesi mediche. In realtà, essi non avevano nulla di probante da opporre alla comunità scientifica, se non una cultura autoreferenziale, che favoleggiava digiuni straordinari durati settimane, mesi interi, talvolta perfino decenni in accordo con i criteri stabiliti da Benedetto XIV per decidere nelle cause di canonizzazione: (1) l’astinenza da ogni alimento, per tutta la durata del digiuno, deve essere certa; (2) durante questo periodo il corpo deve conservare la sua salute; (3) il digiuno deve essere intrapreso per un buon fine; (4) il digiuno non deve ostacolare le buone opere.

La prima chiara descrizione medica di una ‘anoressia mentale’ (etichettata come ‘delirio ipocondriaco’) é stata quella dello psichiatra Louis Victor Marcé (1828-1864), secondo il quale «certe giovani, al momento della pubertà e dopo uno sviluppo fisico precoce, sono colpite da una inappetenza spinta fino all’estremo. Qualunque sia la durata di questa astinenza, esse provano verso gli alimenti un disgusto sul quale non possono trionfare neanche le istanze più pressanti. […] Fortemente impressionate, sia per l’assenza di appetito, sia per il dolore determinato dalle digestioni, queste malate arrivano alla convinzione delirante che non devono mangiare quello che non possono mangiare. In una parola, la nevrosi gastrica si trasforma in nevrosi cerebrale.» [1]

Dopo la pubblicazione di questo lavoro, e soprattutto dopo gli studi di Ernest-Charles Lasègue (1816-1883), il primo ad adoperare il termine ‘anoressia’, la questione è stata stata oltremodo dibattuta. Laddove potevano essere escluse delle cause organiche, divenne nozione comunemente accettata che inizialmente l’inappetenza degli anorettici avesse cause emotive (lutti, dispiaceri amorosi, mancati matrimoni), o dipendesse da restrizioni volontarie (civetteria, imitazione di comportamenti altrui), o costituisse una delle manifestazioni dell’isteria.

Alcuni autori propendevano per un disturbo totalmente su base organica: una turba della fame, intesa come sensazione profonda cenestesica. Altri autori diedero maggiore rilievo alla ‘coscienza capricciosa’ del malato, ma soprattutto all’importanza alle ‘idee fisse’, dunque alla soppressione della sensazione della fame tramite un processo mentale, inizialmente cosciente, qualunque ne fosse la giustificazione addotta. Ciò poteva differenziare la ‘anoressia mentale’ propriamente detta (nella quale il paziente decide di non mangiare) dalla ‘anoressia isterica’ (nella quale il paziente sente lo stimolo della fame), fermo restando che col tempo la prima tende ad assumere le caratteristiche della seconda.

Tipicamente, l’anorettico non ritiene di essere malato, e non comprende le ragioni di chi lo dichiara tale; ma non desidera esplicitamente morire. Nei casi nei quali l’anoressia s’accompagna all’ipocondria o alla malinconia, laddove intervengano periodi di patologica iperattività (caratterizzati in particolare da un certo ‘bisogno di movimento’), è possibile ipotizzare che l’alternarsi dei due quadri morbosi sia espressione di un quadro maniaco-depressivo.

Il trattamento di questi malati è difficile ed in una alta percentuale di casi non riesce ad evitare la morte per consunzione.

Molte anorettiche, in passato, presentavano pressoché tutti gli elementi del ‘digiuno soprannaturale’ dei mistici, pur in assenza di qualunque riferimento a ideazione o pratiche religiose; in esse l’iniziale decisione cosciente di digiunare ad un certo punto si era trasformata in consuetudine non più gestibile a volontà, nonostante il proposito di superare i propri problemi.

Altre volte, un iniziale disturbo dell’umore evolveva in quadro psicotico, con prevalenti tematiche religiose: il senso di colpa e del peccato, la mortificazione del corpo, l’ipotesi di un intervento demoniaco.

Il mistico e l’anorettico condividono molti aspetti della personalità: un ‘Io’ rigoroso; un meccanismo di scissione fra corpo e mente; un esasperato controllo del corpo (negazione e frustrazione dei propri bisogni alimentari; repressione degli istinti, delle sensazioni e dei desideri sessuali); il ritiro dal sociale; la ricerca di perfezione interiore; la tendenza al sacrificio; l’aspirazione all’immortalità. E le loro storie cliniche hanno spesso andamenti similari.

Già nel XVII secolo erano state descritte forme di «consunzione nervosa» e di «consunzione derivante da malinconia, o anche da affezione isterica ed ipocondriaca», per curare le quali si consigliava di distrarsi e liberare la mente con l’esercizio e la conversazione, e di gioire dei benefici di un’aria buona, libera e pulita.

In tempi a noi più vicini, l’anoressia dei mistici è stata ampiamente analizzata da autori ‘laici’, fra i quali ha assunto grande notorietà, con un suo citatissimo saggio, lo storico Rudolph Bell, secondo il quale, fra le 261 donne riconosciute dalla Chiesa Cattolica Romana come sante, vissute nella penisola italiana fra il Duecento ed i primi decenni del Novecento, almeno un terzo dimostrano chiari sintomi di anoressia. [2]

Secondo Bell, all’origine della ‘santa anoressia’ c’è il bisogno psicologico di trovare una propria identità e di sottrarsi al ruolo subalterno in una società patriarcale. L’anoressica ha difficoltà nel rapporto interpersonale, anche quando ha acquisito un certo autocontrollo; rifiuta la passività, la dipendenza dai sacerdoti e l’intercessione dei santi; sente di comunicare direttamente con Dio o Gesù Cristo, da cui afferma di ricevere umilmente i favori; la sua dichiarata insicurezza, il suo senso d’indegnità, il suo senso del peccato sono controbilanciati da  una assoluta sicurezza e da una grande resistenza nell’agire; l’ammirazione da parte di altri del suo ‘eroico’ (ascetico) masochismo ne rafforza il senso di identità.

In linea generale, le biografie delle sante anorettiche hanno molti punti in comune. Per fare un esempio, quella di Caterina da Siena ne ha così tante in quanto al comportamento alimentare con quella di Caterina da Genova, da indurre il sospetto di costituirne in più punti (anche sotto questo aspetto) un ben preciso modello agiografico.

Va ricordato come il tardo medioevo abbia fortemente sentito l’influsso di Iacopone da Todi e dei Francescani spirituali, che esaltavano la virtù delle mortificazioni estreme. Non è dunque inusuale che gli agiografi abbiano abbellito di episodi immaginari le loro ‘Vite’ dei santi, per farle meglio coincidere con l’ideale mistico che intendevano mettere in risalto.

Bell così commenta le comuni caratteristiche psicologiche di tre sante anorettiche del XIII secolo (Umiliana de’ Cerchi, Margerita da Cortona e Angela da Foligno): «Queste donne si identificavano con le sofferenze di Cristo in croce, come vittime e come carnefici. Condividevano nel proprio corpo, con tutto il genere umano, il senso di colpa del peccato originale e la responsabilità di aver richiesto la morte del Redentore. Condividevano nella propria anima con il loro Sposo lo squisito piacere di compiere l’estremo sacrificio di porre finalmente a tacere la propria collera. Dichiararono così una guerra senza quartiere al proprio corpo, sollevando il proprio masochismo ascetico ad altezze sconosciute tra le vergini anoressiche, e sfuggendo così, di stretta misura agli abissi della schizofrenia, contro la quale si battevano.» [3]

Secondo quanto scrive William N. Davis, nel suo commento al saggio di Bell, la ‘santa anoressia’ delle mistiche differisce tuttavia dall’anoressia nervosa dei moderni per un importante carattere: «non comprende la paura di ingrassare e un semiconscio desiderio di dimagrire, che sono invece la caratteristica e i sintomi diagnostici più significativi dell’anoressia nervosa»; ma in entrambi i casi il rifiuto è legato al fatto che le anoressiche aborriscono le conseguenze del nutrirsi, e «pur di diventare sante o di dimagrire, accettano con gioia gli effetti del loro digiuno». [4] Dunque, fra i criteri diagnostici, la santità può ben essere giustapposta alla magrezza.

Sia nell’Italia medievale che nel secolo ventesimo le anoressiche sono iperattive, perfezioniste, e mai soddisfatte dei risultati dei loro sforzi per essere sante o magre. Si sentono esposte al grave rischio di perdere il controllo dei loro scopi così fanaticamente perseguiti e perciò stanno sempre all’erta, molto autocritiche. I loro pensieri sono ossessivamente rivolti alla santità o alla magrezza, in modo tale che non resta loro tempo né forza per fare nient’altro. Le sante anoressiche, e le loro attuali controparti, affermano di non avere alcun interesse per i comuni rapporti umani. Si considerano autosufficienti e indipendenti, sempre pronte ad aiutare gli altri, ma contrarie a ricevere ogni tipo di aiuto.

Spesso, inizialmente, durante quello che Pierre Janet (1859-1947) classificava come primo periodo della anoressia, le anorettiche non sanno rendersi ragione dei loro comportamenti; li attribuiscono ad una azione demoniaca e si dichiarano loro confessori come del tutto disponibili a fare qualcosa per cambiare il proprio regime di vita. Nella fase successiva, la più importante, perdono invece quasi del tutto la coscienza di malattia, e divengono iperattive nonostante il progressivo deperimento fisico. Secondo Bell, in questa seconda fase, la soppressione delle necessità fisiologiche e delle sensazioni fondamentali (fatica, pulsione sessuale, fame, dolore) permette alle sante anorettiche di compiere imprese eroiche e di comunicare con Dio.

Ma per comprendere l’atteggiamento dei biografi va comunque tenuto sempre ben presente soprattutto che, secondo l’interpretazione religiosa, rinunciare alla carne o al pane per nutrirsi dell’eucarestia equivarrebbe allo scegliere il più prelibato dei cibi: mangiare Cristo e diventare come lui coniugando attraverso il cibo sofferenza e gusto.

Occorre infine citare l’opinione di quanti non sono del tutto d’accordo con Bell e similari. Secondo Caroline Walter Bynum, ad esempio, le anoressiche non possono essere del tutto comparate alle ‘sante digiunatrici’, anche in considerazione delle diverse contingenze storiche, pur essendone accomunate ad esempio dall’ascesi e dal disgusto. [5] Le sante volevano nutrirsi unicamente del corpo di Cristo, amante simbolico, e si disgustavano con pratiche come ingerire l’acqua usata per lavare i lebbrosi, o ingoiare frammenti di pelle scarnificata o pus; le anoressiche di oggi, invece, non si nutrono più di nulla sul piano materiale, e semplicemente assorbono il corpo del ‘nemico simbolico’ (che può essere un genitore rigoroso e molesto, ma anche un amico, un terapeuta, o chiunque altro). In ogni caso, comunque, le motivazioni ed i contenuti religiosi mascherano quasi sempre importanti dinamiche psicologiche.

Secondo Bell, il comportamento anorettico delle sante esprime la loro ribellione alle strutture sociali patriarcali alle quali sono costrette a sottostare. In gran parte di loro (come nel caso di Caterina da Siena) questo comportamento conduce ad una morte precoce; ma talvolta (come nel caso di Veronica Giuliani) la giovane anoressica guarisce almeno parzialmente, nel momento in cui impara ad esprimere il suo bisogno di autonomia in maniera più positiva.

 

 

[1] Marcé, Louis Victor (1860): Note sur une forme de délire hypocondriaque consécutive aux dyspepsies et caractérisée principalement par le refus d’aliments. Séance de la Société Médico-psychologique du 31 octobre 1859. Annales médico-psychologiques (Paris), tome sixième, 3éme série, pp. 15-28.

[2] Bell, Rudolph M. (1998): La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal medioevo ad oggi. Laterza. Bari. Edizione originale (1985): Holy Anorexia. University Press. Chicago.

[3] Idem, p.131.

[4] Idem, p. 208.

[5] Bynum, Caroline Walker (ed. 2001): Sacro convivio, sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo. Feltrinelli. Milano. [Edizione originale (1987): Holy feast and holy fast. The religious significance of food to medieval women. University of California Press.]