La libertà di cura

Una delle più frequenti ed ostentate richieste da parte dei sostenitori delle Medicine Complementari ed Alternative è quella di far sì che le moderne e future "vie alla guarigione" comprendano tutto l’intero ampio range di agenti e pratiche atti a "mantenere e ritrovare lo stato ottimale di salute". In particolare, ci si lamenta in genere che la medicina moderna abbia dato eccessiva importanza ai farmaci ed alla chirurgia, fino a farli divenire di fatto l'unica forma di intervento.

Indubbiamente la medicina riduzionista e meccanicista ha acquisito un assoluto predominio nel pensiero e nella pratica quotidiana in tutto il mondo occidentale; la medicina farmacologica e la chirurgia sono sempre più diffuse nel Nord America ed in Europa. E questo predominio appare ampiamente giustificato alla luce dei risultati raggiunti, e la sua legittimità è confermata dalla sempre più evidente occidentalizzazione della medicina locale nelle altre regioni del mondo, mano a mano che esse escono (o cercano di affrancarsi) dalla loro condizione di sottosviluppo e di arretratezza culturale e sociale.

Ma all'interno delle società più protette sotto il profilo sanitario, è in atto una crescente contestazione di questo modello medico, ritenuto eccessivamente riduttivo e chiuso nella sua autocelebrazione. Si lamenta, fra le altre cose, che molti medici non utilizzino, per mancanza di iniziativa personale e svincolandosi dalle logiche del sistema, tutto l’intero bagaglio di sistemi curativi di cui potrebbero disporre. Essi si limiterebbero in pratica ad accettare ciò che viene approvato ufficialmente, senza preoccuparsi di cercare adeguate informazioni su tutti gli altri sistemi curativi disponibili e di prendere le proprie decisioni solo dopo averne preso conoscenza,

La pratica medica viene dunque accusata di limitare "colpevolmente" le proprie risorse, sacrificando pratiche altrettanto o più efficaci, o adatte a problemi altrimenti non risolvibili. Più in particolare viene criticato il rifiuto di prendere in considerazione idee e conoscenze alternative, dalle quali il paziente sente soggettivamente di potere ottenere risultati migliori e più rispondenti alle proprie esigenze.

E non solo viene rivendicata la possibilità di accedere a queste altre pratiche, ma anche la libertà di decidere quando e perché, decretando di fatto la fine di quella che è stata da sempre una delle caratteristiche del rapporto medico-paziente: la delega fiduciaria al medico di quasi tutte le scelte operative, in base al riconoscimento del suo possesso di un patrimonio specifico di conoscenze. Non si tratta dunque della semplice applicazione del principio del consenso informato, oramai definitivamente introdotto nella prassi e nella deontologia medica, ma di pretendere di ottenere dal sistema sanitario quello che più si preferisce.

Su quali basi può essere considerata legittima questa pretesa? Come sostenere che si possa trattare nella maggioranza dei casi di una scelta legittimamente "motivata"? Può l'utente del sistema sanitario rivendicare il diritto di superare il valore della scelta operata da un professionista della salute?

Il problema non sta solo nella quantità di conoscenze, ma soprattutto nella qualità e fonte delle proprie conoscenze. Chi non si basa su quelle scientifiche accreditate, il pubblico in cerca di un non meglio definito "benessere", non ha infatti alcuna difficoltà nel raccordare concetti e suggestioni che derivano dalle più svariate fonti; egli è portato ad accettare nello stesso tempo informazioni provenienti dal mondo scientifico e semplici credenze; e dunque, alla fine, non opera una scelta, ma semplicemente si appoggia a tutto quello che pensa possa essergli utile.

Il problema della libertà di cura non è comunque semplicemente di natura medica, in quanto investe anche aspetti giuridici e di economia sanitaria. Se è vero che chiunque è libero si spendere come vuole i propri denari, è altrettanto vero che lo stato può essere chiamato a sostenere le cure solo laddove queste risultino riconosciute di comprovata efficacia.

Appare fra l'altro abbastanza strano che, mentre deve affrontare queste istanze provenienti dal pubblico (ed a cui sempre più frequentemente fanno eco discussi provvedimenti legislativi), il medico si trovi sempre più ingabbiato deontologicamente e burocraticamente nella sua attività clinica, da "linee guida" e "protocolli terapeutici"; di fatto il suo "tradizionale" diritto ad agire secondo "scienza e coscienza", con la massima "libertà terapeutica", in virtù ed a merito del suo bagaglio culturale e della sua esperienza clinica è sempre più coartato, da una parte (non sempre opportunamente) da norme che provengono dal di fuori del mondo scientifico, dall'altra (giustamente) dalla necessità di conformarsi responsabilmente all'evidenza pubblicata, di raccordarsi con il consenso della comunità medica internazionale.

In nessun altro campo della vita pubblica è così ingiustificata ed arrogante la pretesa di sostituire al parere dell'esperto in materia quello dell'uomo di strada (sia pure nella considerazione, legittima o meno che sia, che ne vada in gioco la propria salute).

Episodi come le pubbliche discussioni e polemiche relative all'impiego della Multiterapia Di Bella hanno evidenziato una pericolosa tendenza a confondere giornalismo, divulgazione scientifica e valutazione scientifica, e soprattutto un crescente condizionamento (di ispirazione politica) da parte di non addetti ai lavori, tramite il connubio giornalismo-senso comune.

La pretesa di potere legittimamente invocare una libertà di scelta terapeutica, copre comunque importanti conflittualità. Si contesta che il solo fatto di appartenere ad una associazione medica (come la American Medical Association) costringa implicitamente gli operatori sanitari non solo a schierarsi contro ogni forma di medicina alternativa ma a sentirsi impegnati nello screditarla.

Il medico che segue la medicina ufficiale sarebbe, secondo i difensori delle medicine alternative, culturalmente propenso a dare poco credito a chi la pensa diversamente e sviluppa nuovi metodi diagnostici e terapeutici, e che per questo verrebbe costretto a lavorare per conto suo, in segreto e spesso a fuggire all'estero.

Questa manovra di discredito avrebbe soprattutto ragioni di tornaconto economico; il bisogno di mantenere una lobby sul mercato della salute, in combutta con le industrie farmaceutiche e nell'ambito di una generale cospirazione contro evidenze alternative.

Entriamo così nel più ampio e delicato ambito della libertà di espressione, così risolutamente in primo piano nell'epoca della comunicazione globale.

Fermo restando un principio generale, legittimo ed ampiamente riconosciuto nel mondo occidentale e in tutti i paesi democratici, è sempre più evidente come la libertà di espressione debba comunque avere delle regole, e fra queste quella che ciò che noi affermiamo non deve, responsabilmente, arrecare un danno agli altri.

Il settore sanitario, in questo senso, è uno dei più delicati. Tutto ciò che si muove al suo interno non può che essere sotto costante e attento controllo: sicurezza delle procedure, preparazione professionale degli operatori (sotto il controllo sia governativo che delle associazioni professionali); ricerca farmacologica e commercio dei farmaci, produzione e vendita di apparecchiature sanitarie. Ma l'interesse pubblico non può limitarsi a questo e deve necessariamente includere la verifica che tutto quanto è in commercio sia adeguatamente testato per sicurezza ed efficacia, che rispetti le regolamentazione e le leggi in materia, che vengano promossi i criteri della Medicina basata sulle evidenze e in genere l'avanzamento della conoscenza scientifica. La medicina alternativa è in palese contrasto con tutto ciò; non è basata sull'evidenza; di fatto si oppone alla medicina scientifica e al governo istituzionale della sanità.

Come è possibile consentire che nell'ambito della sanità si possa inserire di tutto, in una sorta di una rischiosa sperimentazione senza regole? La libertà di cura, che ha strette connessioni con più ampi interessi sociali (ad esempio nel caso delle vaccinazioni) non può essere trattata alla stessa stregua della libertà di culto e di parola, che ricadono nell'ambito delle libertà personali.

I pazienti, che reclamano la libertà di scegliere, ma non hanno alcuna preparazione medica, non possono essere capaci di distinguere ciò che è banale da ciò che è serio; non hanno una precisa idea di cosa comporti una terapia od una procedura medica. La loro visione della medicina e delle malattie non può che essere semplificativa, tendente a ridurre situazioni complesse a singoli problemi con una singola soluzione.

In una visione più generale, il pubblico non può essere esperto in tutto; anzi, nel mondo moderno, è sempre più difficile per un singolo individuo seguire i progressi delle diverse discipline. Purtuttavia sono sempre più numerosi coloro che, pur senza assumere nessuna precisa responsabilità legale e professionale, invocano questa presunta libertà di autodecisione nel campo sanitario. Il loro atteggiamento è perennemente conflittuale, polemico se non aggressivo; ma al clamore delle loro obiezioni non corrisponde una reale volontà di confrontare le idee, di mostrare le prove delle loro affermazioni, di discutere su dati sperimentali, perfino di ragionare con un poco di buon senso. La loro idea di libertà è funzionale solo alla difesa della propria posizione. In molti casi non si può che dubitare della sincerità con cui difendono le proprio idee, e su quanto siano condizionati da interessi personali.

D'Alpa Francesco

Pubblicato su www.cicap.it