Da un anniversario all’altro: i venti dell’antidarwinismo.

"La ricorrenza cinquantenaria della morte di Roberto Darwin è trascorsa tra l’indifferenza quasi generale. In poche accademie ed in pochi giornali scientifici l’autore dell’evoluzionismo classico ebbe l’onore di una rievocazione: la grande massa del popolo, in ben altre faccende affaccendata, rimase del tutto estranea alla ricorrenza cinquantenaria. E pure solo un venticinquennio fa una tale ricorrenza avrebbe rotte le cateratte dell’eloquenza tribunizia nelle università vere ed in quelle popolari: fiumi d’inchiostro avrebbero solcato i fogli dei magni organi quotidiani dell’opinione pubblica come del settimanale di... Peretola: e la disputa pro o contro il darwinismo sarebbe dilagata dalle grandi accademie agli sgabuzzini del ciabattino e del portinaio. Evidentemente molte cose sono mutate in noi ed attorno a noi, e molt’acqua è passata sotto i ponti della scienza, se gli entusiasmi e gli odii che agitarono le anime dei nostri padri ed anche un po’, per riflesso, le nostre durante la nostra giovinezza, sono cenere che appena riesce a dare qualche scintilla se venga a lungo agitata". Così nel numero di novembre 1932 di "Vita e pensiero", rivista fondata e diretta da padre Agostino Gemelli, principiava un perentorio articolo di Serafino Dezanzi, professore nella Regia Università di Torino, che in sei dense pagine si peritava di demolire "scientificamente" (ma in realtà con spirito assolutamente ligio alle Sacre scritture) Darwin ed il Darwinismo.

Viene immediato chiedersi cosa avrebbe pensato questo illustre cattedratico di quanto affermato da Monsignor Ravasi all’approssimarsi del secondo centenario della nascita di Darwin: "…è ovvio che l’evoluzione esiste, non si possono ignorare i risultati della scienza. Le critiche alla teoria evoluzionista non spettano assolutamente ai teologi, è un settore che non li riguarda. Il compito dei teologi e dei credenti è cercare la verità solo attraverso lo spirito, evitando quello che accadde a Galileo; compito degli scienziati invece è di evitare che le loro scoperte diventino sistema ideologico La prospettiva adottata dalla Bibbia nel libro della Genesi non è quella scientifica bensì quella sapienziale".

Forse lo studioso torinese avrebbe trovato conforto nelle parole di Monsignor Fisichella, che attuando sullo scia di Tertulliano uno stupefacente "sacrificium intellectus" afferma: "Se c’è veramente incompatibilità tra un dato della fede e un dato della scienza, allora uno dei due deve inevitabilmente fare un passo indietro. E a mio avviso lo deve fare la scienza"; a meno che non preferisse l’anodina perorazione di quella moglie di Vescovo anglicano che all’epoca della pubblicazione del libro di Darwin non trovò di meglio che esclamare: "Se è vero che l’uomo discende dalla scimmia, preghiamo perché la cosa non si venga a sapere!".

Oggi come settanta anni orsono, a confronto ed in competizione con l’evidenza (per non dire la congruenza e l’eleganza) della teoria Darwiniana, dopo una lotta accanita di retroguardia, la Chiesa Cattolica si trova in angoscioso affanno e le serve tutta la tradizionale abilità verbale (che ahimè non fa scienza) per risollevarsi (come araba fenice) di fronte a quella gran parte dell’opinione pubblica, che aspetta l’imbeccata papale, pur seguendo nel quotidiano senza imbarazzo quel crescente ateismo pratico che trova nel darwinismo un potente alleato.

Proprio per questo, allorché si trovò a dovere riconoscere finalmente la inoppugnabilità delle idee Galileiane, ed a doverle a suo modo "riabilitare", papa Woytila ricorse ad un abusato accorgimento giustificativo, da sempre in uso nella Chiesa: invocare la fallibilità della ragione e dei giudizi degli umani. Ovvero, visto che la Sacra Scrittura e il deposito della Rivelazione debbono restare Verità incontestabili, se la lettura e l’interpretazione di esse si dimostrano in contrasto con le presenti e future acquisizioni delle scienze, se ne deve forzatamente dedurre che sono gli uomini a leggere male le Sacre Scritture (mai ammettere infatti che l’errore derivi dalla "ispirazione" divina!), che possono o addirittura debbono dunque andare interpretate anche nel senso esattamente opposto a quello precedentemente professato.

Nel caso specifico del darwinismo (ma quante altre volte lo si dovrà fare, prima o poi, per altri ambiti conoscitivi), oggi è meglio per la chiesa riconoscere (a denti stretti, ma senza farlo notare troppo) che non si tratta di una mera ipotesi, ma piuttosto di una (semplice, o anche banale) evidenza scientifica che non impegna per nulla la fede in un Dio creatore e signore. Nell’ambito terminologico, dal soffio vitale del Genesi, si passa così (aulicamente) al nuovo concetto di "salto ontologico", termine con il quale Wojtyla definiva il passaggio (opera diretta di Dio ed "antropologicamente" decisiva) dai precursori animali all’uomo attuale, con il suo qualificante surplus di "anima", o spirito che dir si voglia, immesso originariamente in un corpo bruto (ma come giustificare la donna nata partenogeneticamente da una costola, e gli incesti necessari per generare l’inevitabile prole?). E difatti oramai gran parte dell’apologetica, ad imitazione dei più eminenti teologi, si sforza di trovare concordanze fra questo nuovo Verbo e le vecchie ineliminabili "scritture"; una apologetica, diciamolo chiaramente, che somiglia più al gioco delle tre carte di certi avvocati che ad una vera dissertazione logica e scientifica. Ma la Chiesa ha sempre fatto così, e basta rispolverare vecchi e meno vecchi commentari per rendersene conto.

Torniamo dunque al presunto trionfalismo del 1932. Secondo il Dezanzi la scienza del suo tempo "è venuta scalzando dalle sue fondamenta il gigantesco edificio darwiniano, ed i credenti nel dogma evoluzionista sono oggidì per la maggior parte costretti a cercare altrove che nel darwinismo punti di appoggio alla loro barcollante dottrina". La dottrina di Darwin, derivante dal trasformismo di Lamarck, sarebbe fondata, oltre che su di una massa notevole di fatti e osservazioni, su di un insieme di ipotesi tali da ottenere un "inatteso ed insperato trionfo".

Ai creazionisti di tale fatta, non piace l’idea della selezione naturale, definita una "cernita fatta dalla natura" (dunque qualcosa che sfugge al Dio orologiaio, o che invocherebbe quanto meno un Dio panteista), né l’idea di una lotta per l’esistenza fra individui della stessa specie e di specie diverse (che minerebbe molti dei presupposti morali delle Sacre Scritture); tanto meno l’idea della "selezione sessuale". La teoria darwiniana, dice il nostro autore, "ebbe una risonanza più unica che rara nel mondo scientifico. L’ipotesi in breve volgere di anni, ad opera soprattutto di seguaci fanatici, si trasformò in realtà e poi addirittura in dogma. […] I credenti in Dio, atterriti dalla marea evoluzionistica e materialistica che sempre più saliva e pareva dover sommergere fatalmente ogni dottrina antica, si rinchiusero paurosamente nelle loro rocche; pochissimi rimasero impavidi sulla breccia del creazionismo, mentre pochissimi altri tentarono l’inconciliabile: accordare i dati della fede con quelli di una falsa scienza". Beati loro, questi impavidi, "i pigmei della critica", che con pazienza avrebbero poi invece facilmente demolito il "maestoso edificio [che] poggiava sull’arena", dimostrando che "la legge generale che i fenomeni naturali non presentino salti e procedano invariabilmente dal semplice al complesso è un puro inganno nostro". Secondo questo genere di creazionisti la selezione naturale (che neanche essi possono negare, ad onta dell’idea preconcetta di un mondo "creato" perfetto ed in funzione dell’uomo) è semplicemente "correttiva"; non crea specie nuove, ma solo seleziona varietà, individui più adattabili al mutare dell’ambiente, all’interno di specie invariabili.

Dando un giudizio più morale che scientifico, il Dezanzi stigmatizza lo "agnosticismo" di Darwin, preferendogli l’atteggiamento "credente" di un Pasteur. Ma la lettera che egli cita come esemplarmente negativa, è invece, pur nella sua brevità, una eloquente dimostrazione di quanto lo spirito di Darwin fosse bene immesso nella solida corrente della modernità scientifica. Ad uno studente che lo scongiurava di dire qualcosa sulla fede, alla luce delle sue convinzioni anticreazioniste, Darwin infatti così rispondeva, nel 1879: "Caro Signore; sono occupatissimo: sono vecchio: ho una cattiva salute: non saprei trovare il tempo di rispondere compiutamente alle vostre domande, se pure una risposta fosse possibile. Questo solo oso dire: che la scienza non ha nulla a che vedere con Cristo e che l’abitudine delle ricerche rende un uomo ben difficilmente contento in fatto di prove. Per quanto mi concerne, non credo che ci sia mai stata una rivelazione. In quanto poi ad una vita futura, ciascun deve vedere, per proprio conto, se egli possa ammettere come valide probabilità vaghe e contraddittorie".

Alla domanda cruciale "Come fu dunque possibile cinquant’anni fa l’ubriacatura darwinistica che non è certo destinata ad elevarci nella stima dei nostri nipoti?" Dezanzi risponde che fu facile ai darwinisti, col supporto di poche evidenze e con un poco di "coraggio" (nel senso, evidentemente, di "sfrontatezza") creare una teoria che sciogliesse ogni problema con una spiegazione semplice: "con un po’ di pazienza potevano immaginare quanto desideravano". Invece, per lui, "Tutto per ora ci obbliga a credere che l’uomo è comparso sulla scena del mondo come Homo novus, e vi comparve all’improvviso all’inizio dell’età quaternaria (diluvium), dotato già di un cervello che poco aveva da invidiare al nostro", e i presunti ominidi non sarebbero stati dunque che o vere scimmie o degli uomini primitivi con "segni di degenerazione", piuttosto che, come sostenuto da Darwin, i "testimoni di una bestialità ancestrale".

All’indifferenza che sarebbe calata, da parte delle giovani generazioni, sull’astro, giudicato fugace, di Darwin, Dezanzi contrappone il fulgore di Alberto Magno: il teologo, filosofo e naturalista, maestro e padre spirituale di San Tommaso, che seppe (o piuttosto volle) delimitare con precisione i rapporti (e imporre i limiti) della filosofia (e dunque della scienza) rispetto alla teologia. Egli sarebbe "balzato tra i fulgori della più grande gloria" a 650 anni dalla sua morte; grande perché "non si è veramente grandi se si possiede la sola scienza. Occorre per ciò la Sapienza biblica. Col suo principio: che è anche il suo fine". Evidentemente la fresca patente di santità a lui attribuita (nel 1931; insieme al titolo di Dottore della Chiesa) da quella società non scientifica (anzi sostanzialmente antiscientifica) che è sempre stata la Santa Sede, viene giudicata avere più valore di quella universale e crescente approvazione (ed ammirazione) del mondo scientifico (accresciuta, oggi più che ieri, ad ogni nuova scoperta in tutti i domini del sapere), di cui ha sempre goduto Darwin. Che facilmente immaginiamo dover comunque attendere pazientemente anche lui qualche secolo, in buona compagnia, la sua "riabilitazione" ufficiale!

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 43 (2/2006)