La catechesi del dolore utile

La Teologia distingue ‘ontologicamente’ il piano del dolore (comune con altri viventi) da quello della sofferenza (specificamente umana, almeno nelle sue espressioni più elevate come il dolore morale). Il dolore sarebbe il ‘sentimento di un male fisico’, o la ‘privazione di un bene fisico’, o la ‘perdita della propria integrità’, accompagnati nell’uomo, a differenza del mondo non umano, dalla consapevolezza di essere privato di un bene che gli è dovuto, in quanto inerente alla perfezione della propria natura; ed in contrasto con la naturale tendenza alla felicità. Il problema del dolore è collegato a quello del male, morale o fisico, che rientra in una più generale economia della Provvidenza.
A differenza della visione greca, secondo la quale il dolore è di per sé inerente alla inevitabile mortalità umana, per il pensiero ebraico-cristiano il dolore non appartiene alla natura originaria dell’uomo. Dunque, fra il male (ed il dolore) dell’uomo e quello delle creature non umane esisterebbe una differenza sostanziale. Per queste ultime, esso è iscritto nelle regole generali del mondo, per il quale è valido il principio della subordinazione gerarchica degli esseri che lo compongono: il male della creatura inferiore (che comunque non soffre) è ‘sapientemente’ ordinato al bene della creatura superiore. Questo principio non vale invece per l’uomo, in quanto la sua superiorità creaturale lo pone su di un diverso piano dell’esistere, ove egli stesso è responsabile (direttamente o per via della sua discendenza dal peccatore Adamo) del proprio male: “l’uomo, nato di donna, è breve di giorni, ma sazio d’affanno” (Giobbe 14,1); “la presente vita è un’incessante infermità” (Agostino d’Ippona).
In questo senso, l’esperienza del male, ed in particolare del dolore e della sofferenza, è al tempo stesso la giusta punizione per la colpa commessa ed un particolare mezzo utile alla redenzione personale. Il male, viene costantemente ribadito, non è una regola della natura, ma una eccezione alle regole della natura, un turbamento del suo ordine originario; nasce dal peccato dell’uomo e si ritiene che debba accompagnare tutta la vita dell’uomo. Ogni uomo è figlio di questo dolore originato con Adamo; ma ogni uomo contribuisce con i propri personali peccati ad accrescere i mali ed i dolori del mondo.

Dunque, secondo i cattolici, il problema del dolore non si può risolvere se non si comprendono le sue vere origini. Perché Dio non ci ha esentati dal dolore, perché non ci risparmia certe tremende sofferenze? Ma, ovviamente, per una ragione che noi possiamo solo intuire. Se veramente la comprendessimo giungeremmo perfino a “benedire, amare, abbracciare lietamente il dolore”; scopriremmo nel dolore un “mistero d’amore”, quel mistero cui gli “amanti appassionati del dolore” hanno voluto partecipare in imitazione di Cristo e seguendo Paolo di Tarso che esclamava: “io sovrabbondo di gaudio nelle mie tribolazioni”. L’uomo non potrebbe neanche discutere sulla legittimità del dolore che lo coglie, perché ciò costituirebbe un atto di ribellione a quel dio provvido che ha “consentito” l’irruzione del male nel mondo; rimetterebbe in discussione dio stesso e costringerebbe a ripensare tutte le domande sul ‘senso’. Secondo l’Enciclica “Salvifici doloris” di Giovanni Paolo II, la sofferenza dell’innocente “deve essere accettata come un mistero che l’uomo non è in grado di penetrare con la sua intelligenza”.
Anche se non si deve mai dimenticare che per il cattolico l’esperienza del dolore è una riprova dei “limiti creaturali” dell’uomo e del suo “ineludibile destino di morte”, i credenti di oggi sono certamente lontani dalla visione tradizionalmente “masochista” del dolore, che vede in quello provato su se stessi un ideale strumento di redenzione dalla carnalità e dal peccato. La malattia dunque non è più “una benedizione da ricevere con animo lieto”, anche se può “essere realisticamente accettata coltivando sentimenti di rassegnazione”. L’accento catechistico, d’altra parte, non è più sull’uomo sofferente, ma su chi lo circonda, che si nobilita (ed acquista meriti per l’aldilà) nella sua opera di “aiuto misericordioso” al sofferente. Il dramma di chi soffre resta dunque tale.

Nei trattati di ‘bioetica’ le finalità del dolore umano vengono definite ‘fisiche’ (segnale di allarme per il corpo), ‘morali’ (potente stimolo al progresso morale), ‘religiose’ (riavvicinamento a Dio). Ed ognuna di queste sarebbe di utilità per l’uomo.
Il dolore sarebbe stimolo alla conoscenza ed al progresso delle scienze; contribuisce all’espressione artistica; eleva a Dio. È innanzitutto educativo, giacché fiacca l’orgoglio umano, pone un limite alla sua felicità e prepara la volontà alla rinuncia. Chi non prova il dolore non può arrivare a comprendere la propria anima nella sua profondità: solo gli occhi che piangono comprendono a fondo la realtà. Il dolore spezzerebbe la “felice identità narcisistica con il corpo” aiutandoci a scoprire un io più autentico e profondo.

La dimensione punitiva e salvifica del dolore e della sofferenza, quali individuate nella catechesi, hanno sempre condizionato l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla pratica medica. Pur con evidenti concessioni, in epoche recenti, i mezzi atti a limitare i dolori e le sofferenze (da quelli del parto a quelli delle malattie croniche) sono stati visti sempre se non con ostilità almeno con sospetto, soprattutto quanto contrastare il dolore implica una minorazione dell’intelletto e della volontà o “impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali” (Pio XII). L’economia cattolica del dolore non è comunque una scienza esatta, giacché il dolore sembra ad uno sguardo obiettivo prendere a caso piuttosto che prediligere i migliori ed i candidati alla perfezione cristiana. Nell’epoca attuale dominata della tecnica, la ricerca di una vittoria sul dolore viene ancora sentita dai cattolici come uno dei tanti soprusi alla natura. Non piace loro la definizione del dolore, e soprattutto del dolore psichico, come un “non senso”, come un nemico da combattere ed eliminare in quanto tale, prescindendo da ogni ipotesi teologica sulla sua giustificazione.

Per il biologo il dolore è invece insito nella struttura corporea, ed è presente in diverso grado nella serie dei viventi a partire da un certo gradino dell’evoluzione. Il dolore e la sofferenza sono strettamente correlati con la coscienza; e la capacità di soffrire, più o meno svincolata da uno stato fisico e da un dolore reale, è una caratteristica essenziale della psiche umana, acquisita evolutivamente. Il dolore, il disagio e l’ansia sono elementi che favoriscono l’attivarsi di comportamenti di evitamento e di ricerca e favoriscono l’apprendimento, come è ben provato dagli esperimenti sugli animali. Le forze adattative dell’individuo ne sono positivamente stimolate. Quanto più si sale nella scala evolutiva, tanto maggiore diviene la capacità di provare sofferenza, e l’uomo è naturalmente il vivente che la prova al massimo livello di partecipazione e di coscienza. Proprio l’incapacità di provare sofferenza o di partecipare a quella altrui denota una grado inferiore di sviluppo psichico; e per questo la capacità di provare la sofferenza psichica (in particolare la sofferenza morale) ha ricevuto grande attenzione in tutte le religioni; in quanto la si è ritenuta una qualità propria di anime particolarmente elevate. Secondo S. Kierkegaard la capacità dell’uomo di provare sofferenza è addirittura più importante della stessa stazione eretta.

Per il cattolico, il dolore e la sofferenza sono invece due caratteristiche non originarie della natura umana, assenti nello stato di grazia del paradiso terrestre, acquisite dopo il peccato originale. La sofferenza è inevitabilmente legata al peccato ed al diavolo. Da ciò derivano due condizioni obbligatorie: una passiva, la sua inevitabilità come conseguenza del peccato originale; l’altra attiva, il valore salvifico della partecipazione al dolore di Cristo sulla croce. L’eccesso di dolori e di sofferenze è stato a lungo considerato sovrabbondanza di meriti, perché la prova terrena sarebbe più gravosa per le anime più forti nel Signore. Ribellarsi al dolore è invece innanzitutto ribellarsi alla “giusta partecipazione” alla colpa primigenia; è non volere partecipare alle sofferenze di Cristo. Così la sofferenza ha giocato un ruolo importante nella storia del cattolicesimo. Ed occorre sottolineare come non solo il dolore fisico, la paura e la depressione hanno importanti ricadute nel vissuto religioso, ma la religione stessa (con i suoi dubbi, scrupoli, sensi di colpa) è per molti causa di sofferenza, o comunque propone un modello di sofferenza cui aderire e partecipare volontariamente ed in abbondanza.

Sul piano strettamente mentale, la sofferenza è, in negativo, uno degli stati d’animo caratteristici dell’uomo, il contraltare del benessere mentale. L’anima sofferente è stata dunque descritta da W. James come una delle due espressioni del sentimento religioso (l’altra è la religione dei sani di mente), il corrispettivo religioso (nel senso di malattia dell’anima) di quella che S. Freud chiamò pulsione di morte. È esperienza quotidiana di ognuno di noi, e ancora meglio lo definisce la psichiatria, che la partecipazione al dolore ed alla sofferenza altrui sono più intense ed immediate che non la condivisione della gioia. Non a caso la malinconia è la tonalità emotiva più frequente nei poeti e nei musicisti; ed è spesso la porta che conduce a sentimenti più elevati di umanità. Allo stesso modo, la sofferenza dell’anima è meglio percepibile al credente che non il godimento di una maturità spirituale gioiosa, integrativa, adulta. Come un bambino piange più facilmente di un adulto, così una religiosità immatura si veste meglio di devozioni lacrimevoli e commiserative. Non si può, entro certi limiti, non comprendere come in tutto questo vi sia un fondo di evidenza: l’uomo sofferente, infatti, come dimostra la psichiatria di certe nevrosi, sembra sempre più vicino ad una visione del mondo ‘obiettiva’ ed ‘umana’ di quanto lo sia chi sperimenta la gioia.
Va ancora sottolineato come l’ottimismo religioso tenda a rigettare alcuni concetti fondamentali e molti orpelli della religiosità popolare: a partire dall’idea stessa del male e del demonio. Per questo esso viene ritenuto più lontano dalla verità, rispetto alla religiosità sofferente, in quanto tende ad escludere o rimuovere una porzione di ciò che si ritiene il “reale soprannaturale”. L’animo sofferente, inoltre, introvertito e riflessivo, è anche più determinato e categorico, se non intollerante, rispetto a chi vive la propria spiritualità in modo più sereno, e ciò è più funzionale alla catechesi ed al proselitismo.

Non si può negare come la religione abbia la capacità di trasformare radicalmente il senso di una sofferenza, quale la perdita di una persona amata, che risulta insopportabile ad un non credente; essa può aiutare ad accettare e superare l’evento. La Bibbia esprime ampiamente questo concetto nel racconto della crescita spirituale degli Ebrei durante l’esilio. In questo caso si può anche riconoscere alla religione (psicoterapia ante-litteram) un beneficio individuale e sociale derivante dall’elaborazione dell’esperienza della sofferenza, che crea anche attenzione per i bisogni altrui e favorisce la crescita dei sentimenti di solidarietà sociale.
Ma sull’altro piatto della bilancia vanno poste le nevrosi ed in genere le malattie mentali, come anche i conflitti ed i dubbi (in gran parte suscitati proprio dalla religione), spinti all’estremo, che sono fra le forme più diffuse di sofferenza, e che si integrano bene con il pensiero ed il vissuto religioso, in cui sono ampiamente inquadrate ed esaltate. Qui l’effetto della religione è devastante, in quanto la sofferenza viene integrata in un percorso ideale di guarigione metafisica che annienta la corporeità del sofferente. Questo tipo di sofferenza può essere ancora un vantaggio per il singolo e per la società umana? Ed in questo caso, la religione è ancora capace di trasformare la sofferenza in una forza capace di migliorare l’uomo, di dare una molla alla creatività?
Laicamente ritengo di no; perché ad un certo punto, superato il limite dell’utilità biologica la sofferenza non ha più un senso. E lo ha ancor meno in una società che giustamente non accetta più la morte per malattie che sente di potere curare e di dovere cercare di curare; che sente che lottare contro il dolore fisico non è più un tabù.
Così quello di rassegnazione, di “sofferenza accettabile” (se non anche “desiderabile”) è un concetto quanto mai relativo, i cui limiti applicativi dipendono più dalla conoscenza e dalla tecnica che dalla metafisica; il cui ambito va restringendosi sempre più. La religione, con la sua funzione millenaria di acquietamento delle aspirazioni dell’uomo ad un benessere terreno, non può dunque proporre più coerentemente la sua catechesi del dolore, nelle forme consolidate dalla tradizione; e i templi della sofferenza cristiana non sono più le basiliche mariane in cui si soffre con la Madonna, ma i grandi santuari della medicina tecnologica dove si guarisce con la medicina che non guarda a Dio.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 51 (3/2007)