Una certa rappresentazione dell’ateismo e degli atei nei testi scolastici di religione

Un gruppo di soci milanesi dell’UAAR si è recentemente chiesto se alcuni passi di un testo di religione per le scuole medie statali non possano essere ritenuti diffamatori nei confronti degli atei, più o meno allo stesso modo di come gli slogan sull’inesistenza di dio, esibiti sugli autobus, lo sarebbero stati per i credenti. Partendo da una mia personale risposta a questo quesito, ho ritenuto opportuno ampliarne il campo di applicazione.
Il volume in questione è “Beati voi” di Giampiero Margaria (Marietti, Torino, 20o4), che gode dell’Imprimatur della Conferenza Episcopale Italiana, a firma del cardinale Camillo Ruini.
Le pagine che ci interessano (e le uniche che prendo in considerazione) sono la 34 e 35, facenti parte della “Seconda unità didattica”, intitolata “Ateismo, magia e superstizione”.

Partiamo dalla definizione di ateismo nel testo in questione:
“è la negazione dell’esistenza di Dio”.
Si poteva anche scrivere che l’ateismo “è l’affermazione dell’inesistenza di dio”. Ma così non intende l’autore (che segue le indicazioni della CEI ed una consolidata tradizione), abituata a termini che inequivocabilmente spingono verso un giudizio di merito, contrapponendo ‘esistenza’ (concetto ‘positivo’) e negazione (concetto ‘negativo’). Ma negare l’esistenza di qualcosa è atteggiamento erroneo? La scienza moderna nega l’esistenza dell’etere, a cui in tanti prima credevano: dobbiamo darne una colpa alla scienza o prendere atto del miglioramento delle conoscenze grazie alle quali oggi sappiamo proprio che l’etere non esiste?
L’ateismo è introdotto anche in questo modo:
“Molte persone al mondo non hanno fede in Dio. Alcuni non si pongono neppure le domande sui ‘perché’ primi ed ultimi. Altri se le pongono ma non credono che la risposta sia Dio.”
Ma qui intenzionalmente si equivoca. I cattolici ritengono infatti che esista un solo dio, il loro, ovvero quello che avrebbe parlato attraverso la Bibbia. A questo dio non credono non solo gli atei, ma neanche tutti i credenti di altre religioni (a cui gli atei e gli agnostici andrebbero accomunati) per i quali egualmente la Bibbia non è stata ispirata da dio. Ritenere che ‘esista un dio’ (qualunque significato abbia questo termine) ed ‘avere fede’ nel dio della Bibbia sono in ogni caso due atteggiamenti diversi, cosa che qui non viene evidenziata.
Il primo paragrafo di questa unità didattica, intitolato “Il tramonto delle fedi e delle religioni”, si rivolge subito, palesemente, ad un presunto o potenziale credente:
“Forse conoscerai direttamente persone che non vogliono credere in nessun Dio, che non desiderano praticare nessuna religione. Comunemente esse vengono denominate atee.”
C’è ovviamente una certa differenza fra “non credere” e “non voler credere”. Quando io dico “non voglio giocare a calcio” esprimo una scelta, che posso anche rendere con “non gioco mai a calcio”. Non è lo stesso quando dico “non voglio mangiare”, che non può essere paragonato a “non mangio mai”. Dov’è la differenza? Nel fatto che mangiare è necessario alla vita, e nessuno può “non mangiare”, a scapito della sua vita; mentre si può non giocare a calcio e preferire ascoltare un disco; si tratta infatti di una scelta in un certo senso ‘indifferente’. Riguardo al ’credere’, per i cattolici, la scelta invece non è per nulla ‘indifferente’, in quanto per loro ‘credere in dio’ è la normalità, ‘non credere’ una anomalia. Così l’autore del testo intende lo comprendano gli studenti, sprovvisti di mezzi critici adeguati.
“L’ateismo è un fenomeno praticamente sconosciuto nel mondo antico. L’uomo ha attraversato epoche in cui ogni aspetto della vita individuale e sociale era profondamente influenzato dalla religione (pensiamo al medioevo) …”
Con buona pace degli ignari studenti (che si avvicineranno alla storia della filosofia solo fra qualche anno) il mondo antico ha invece conosciuto ampiamente l’ateismo; ed in ogni caso la religione (o le religioni) degli antichi (il ‘paganesimo’, così tanto stigmatizzato dal cristianesimo) era tutt’altra cosa della religione dei moderni, legata ancor più di questa innanzitutto ad una mancata conoscenza dei meccanismi della natura che ci circonda ed ingloba. Ed il riferimento al medioevo appare quanto mai penoso, se pensiamo a come questo periodo abbia rappresentato forse il momento peggiore della civiltà occidentale degli ultimi venticinque secoli. In quanto all’atteggiamento verso ciò ‘che tutti hanno sempre creduto’, teniamo ben presente che l’astrologia è stata ritenuta valida per molti più secoli e da molti più popoli che non i dogmi cristiani, per essere poi superata dalle conoscenze scientifiche.
“Con le rapide evoluzioni della scienza si afferma l’idea della inutilità di Dio; sembrano sufficienti la ragione, la scienza, lo sviluppo tecnologico, attraverso cui l’uomo riesce a raggiungere traguardi ambiziosi, a fare moltissime scoperte, a sconfiggere le malattie: i confini della ragione appaiono infiniti.”
Anche qui la scelta dei termini è sottilmente fuorviante: anziché parlare di ‘inesistenza di dio’ si fa riferimento alla ‘inutilità’ di dio. Così si mette in risalto ancora una volta la superbia del rifiuto (da sempre giudicato peccaminoso) di riconoscere un dio che invece, a parere dei credenti, esiste con assoluta certezza.
Per inciso, viene comunque riconosciuto che la ragione sconfigge le malattie, mentre da sempre si è sostenuto dai credenti che invece è dio a guarire.
“Altre persone arrivano alla negazione di Dio perché nel mondo esiste il male, capitano cose orrende: catastrofi, guerre, genocidi, olocausti. Essi sostengono che se esiste il male, non può esistere un Dio onnipotente, a meno che si voglia credere in un Dio crudele. Queste persone arrivano a pensare che non ci sia un vero senso da dare alla vita, che basti vivere alla giornata, senza porsi problemi a lungo termine che non hanno soluzione. Serpeggia in queste posizioni, un senso di impotenza, quasi di disperazione.”
Ovviamente una gran parte degli atei non si riconosce in questa descrizione, e ritiene che la vita vada vissuta per come è. Questi atei non somigliano per nulla al ritratto disperato che ne hanno fatto per secoli i predicatori; non si avvicinano alla morte con maggiore o diversa angoscia rispetto ai credenti.
In quanto al vivere alla giornata, proprio nei Vangeli si trova elogiato come virtù il vivere alla giornata, senza preoccuparsi di tessere gli abiti o di procurarsi il cibo, senza porsi problemi terreni a lungo termine. La sola fede in un aldilà sarebbe sufficiente a nobilitare questo atteggiamento ideale che la maggior parte dei credenti di tutti i tempi (clero incluso, ed anzi soprattutto il clero) non ha comunque seguito, impegnato com’era ad assicurarsi benessere e piaceri terreni.
L’autore del volume lascia quindi spazio ad una citazione illustre:
“Ti proponiamo qui di seguito la riflessione di Indro Montanelli (1909-2001), grande giornalista italiano, che in un articolo del “Corriere della Sera” del 28 febbraio 1996 scrisse: Io ho sempre sentito la mancanza di fede, e la sento, come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo da dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli. La mia è soltanto una dichiarazione di fallimento. […] Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. La nostra vita, il mondo, il creato, l’esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove la mente e la ragione finiscono, e purtroppo finiscono presto, che per me comincia il grande Mistero di Dio.”
Si tratta ovviamente di un intervento scorretto, tipico dell’apologetica, che ritiene di esibire quale prova tutte le testimonianze favorevoli, ignorando le contrarie; intervento che comunque non aggiunge nulla di probante, in quanto Montanelli non sostiene per nulla di credere nel dio dei cristiani, ma solo di ‘non sapere’; che è più o meno quanto sostiene la scienza atea, perfettamente conscia dei suoi limiti ma non per questo disposta a cedere alla credenza religiosa ed all’irrazionale.
Ma andiamo avanti:
“La categoria delle persone che non si pongono seri interrogativi è purtroppo in espansione. Per queste persone è sufficiente vivere alla giornata; per loro lo scopo della vita diventa il piacere ricavato dalle cose che si consumano il più in fretta possibile: è importante cambiare modello di auto, di vestito, di computer, di  cellulare, ecc…”.
Qui occorre correggere una falsità: il numero di persone che si pongono ‘seri interrogativi’ è da secoli sicuramente in aumento; ed anzi il mondo moderno è nato proprio con gli interrogativi che scuotevano una religione cristallizzata in formula accademiche e di comodo. Nel medioevo cristiano la gente comune non si chiedeva affatto il perché delle cose; piuttosto aveva terrore delle cose ed accettava supinamente le idee dei religiosi, anche contro l’evidenza. Recitare preghiere e fare penitenze dava solo apparentemente un senso alla vita, ma soprattutto rassicurava, esorcizzava la miseria e le paure quotidiane. Le persone colte avevano sì il desiderio di capire, ma lo facevano secondo lo stile dell’epoca, ragionando sui libri sacri. Oggi lo si fa invece ragionando sulla natura, secondo i metodi della scienza empirica; che ha sostituito la religione, quanto la religione cristiana aveva sostituto le idee degli antichi.
Nessuno sicuramente è in grado di dimostrare che oggi i non credenti cerchino i piaceri o consumino più dei non credenti. Ad uno sguardo d’insieme sulla nostra civiltà, sembra invece del tutto evidente il contrario, dato che è proprio nell’occidente cristiano che furoreggia da secoli la cultura del consumo, dello sfruttamento della natura, e dell’edonismo.
“Si rifugge dalle grandi verità per ancorarsi a piccole cose, a piccoli piaceri quotidiani. Ne deriva la banalizzazione radicale della vita, ne derivano anche la più radicale solitudine, l’incapacità della comunicazione profonda, la quasi totale indifferenza verso tutti e verso ogni cosa che accade. La guerra, la fame nel mondo, addirittura la malattia di una persona cara causano, al massimo, emozioni passeggere che svaniscono all’insorgere di nuovi desideri. La vita deve andare avanti, non ci si può attardare, non si deve soffrire. E ‘l’idea di Dio’? E’ un pensiero pericoloso, che potrebbe spingere a revisioni di vita… troppo faticose.”
I più accorti noteranno che questi atteggiamenti sono stati pervasivi anche della migliore tradizione cristiana. La guerra non è mai stata un problema nel mondo cristiano, sia che contrapponesse le potenze cattoliche, sia condotta contro infedeli ed eretici. La fame è stata sempre ritenuta una conseguenza del peccato originale, una punizione divina, un mezzo per redimersi, una necessaria ineguaglianza sociale; la carità verso i bisognosi non si è mai trasformata in lotta alla povertà, magari con la restituzione dei beni sottratti o negati alle classi sociali svantaggiate. La malattia e la morte di persone care si è sempre insegnato ad accettarle come accidenti della vita meno importanti degli interessi per l’aldilà.

Poniamoci ora dal punto vista del giovanissimo studente, prendendo atto del fatto che queste pagine non gli dicono molte cose e non l’aiutano nella sua comprensione critica.
Innanzitutto egli non sa che quella che sta leggendo e studiando non è una materia come tutte le altre, ma solo il resoconto di una idea (fra le tante) del mondo, posseduta da una categoria a parte di insegnanti, che cercano di indurlo a credere nella ‘verità’ ed autorevolezza di quello che gli propongono. Una materia solo apparentemente ‘ovvia’ e ‘neutrale’, come lo sono la matematica o la fisica, che si studiano senza porre in dubbio ciò che viene insegnato e senza che alla base esistano fra gli studiosi, ameno per quanto giunge al profano, punti di vista contrapposti. Allo studente non si insegna ad affrontare in modo critico, ma soprattutto comparativamente (con le altre) la religione cattolica. Gli si vuole di fatto ‘insegnare’ la religione, nello stretto significato del termine, come dato di fatto, come si insegna a scrivere o a far di conto.
A differenza del passato, quando il vivere civile occidentale era modulato nelle forme e scandito nei ritmi dalla religione, si era in un certo senso ‘naturalmente’ religiosi, e l’adattamento alla religione era parte dell’integrazione sociale. Ora non più. Ogni giovane studente è di fatto, realisticamente, un ‘ateo pratico’, che nega nella maggior parte dei suoi atti quotidiani ciò che un tempo la religione predicava: sobrietà, ossequio ai precetti morali della catechesi, sguardo rivolto all’aldilà più che all’aldiquà; un giovane immerso in quell’ateismo che il testo catechetico demonizza. Eppure si pretende di indurlo a porsi un problema di ‘senso’ che gli è ovviamente estraneo. Un tempo questo genere di educazione religiosa provocava soprattutto angosce (ad esempio, per l’inferno) e sensi di colpa (ad esempio, nel campo della sessualità), che oggi non riesce più a suscitare. Così la catechesi scolastica ripiega sulla solidarietà e sull’umanitarismo, divenuti argomento di facciata della religione; lasciando in seconda linea i temi fondamentali della fede, cioè le ragioni del soprannaturale.
Tutto, in questi recenti volumi di catechesi, è stato in effetti adeguato alla rappresentazione moderna del mondo, affinché il nuovo, demonizzato solo fino ad un certo punto, consenta al vecchio di sopravvivere in qualche modo. Le ragioni di oggi (ad esempio l’opposizione alla pena di morte ed alla schiavitù, la condanna dell’antisemitismo e dell’islamismo), sono esposte in modo tale da nascondere le posizioni antitetiche di sempre, rigettate solo dopo la lotta perduta contro l’illuminismo.
I conflitti passati, della chiesa contro la civiltà, e all’interno della chiesa stessa, svaniscono dunque nell’abbraccio con ciò che un tempo si osteggiava, ma senza accennare al come ed al perché di questo mutamento.

Qualcuno si sarà a questo punto domandato se il testo scolastico che stiamo esaminando presenti punti di vista nuovi, o altrimenti quali siano i suoi rifermenti dottrinali.
La risposta è abbastanza facile. Il riferimento continua ad essere quasi in tutto la Costituzione Pastorale “Gaudium et spes”, del 1965, frutto di quel Concilio che ha segnato il punto di maggiore riavvicinamento della Chiesa cattolica al mondo reale, di fatto rinnegato dopo la svolta tradizionalista degli ultimi due papi.
Fra quel documento e questo testo scolastico esistono comunque delle differenze: in particolare un atteggiamento di fondo che oggi ridimensiona e quasi vela la tradizionale demonizzazione del non credente.
I capitoli della “Gaudium et spes” che ci interessano sono il 19 “Forme e ragioni dell’ateismo”, il 20 “L'ateismo sistematico”ed il 21 “ Atteggiamento della Chiesa di fronte all'ateismo”.
Il capitolo 19 sostiene:
“Molti nostri contemporanei, tuttavia, non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio: a tal punto che l'ateismo va annoverato fra le realtà più gravi del nostro tempo e va esaminato con diligenza ancor maggiore. Con il termine «ateismo» vengono designati fenomeni assai diversi tra loro. Alcuni atei, infatti, negano esplicitamente Dio; altri ritengono che l'uomo non possa dir niente di lui; altri poi prendono in esame i problemi relativi a Dio con un metodo tale che questi sembrano non aver senso. Molti, oltrepassando indebitamente i confini delle scienze positive, o pretendono di spiegare tutto solo da questo punto di vista scientifico, oppure al contrario non ammettono ormai più alcuna verità assoluta. Alcuni tanto esaltano l'uomo, che la fede in Dio ne risulta quasi snervata, inclini come sono, a quanto sembra, ad affermare l'uomo più che a negare Dio.”
Facciamo attenzione a questi punti: ‘gravità dell’ateismo’, ‘indebito oltrepassare dei confini delle scienze positive, ‘negazione di verità assolute’. Evidenziare la gravità dell’ateismo significa per la “Gaudium et spes” innanzitutto colpevolizzare l’ateo, mentre oggi si preferisce rappresentarlo come pecorella smarrita; il resto fa pare del repertorio della predicazione contro il relativismo, della quale è campione Benedetto XVI sin da prima della sua elezione. Sarebbe ovviamente difficile spiegare a dei ragazzini cosa sia il relativismo (e tanto più spiegarne la diversa concezione laica), e per questo i testi di religione a loro dedicati ne parlano in termini meno scientifici e più persuasivi.
Il seguito del capitolo 19 è la inequivocabile fonte cui attinge l’autore del nostro corso di religione:
“Altri si creano una tale rappresentazione di Dio che, respingendolo, rifiutano un Dio che non è affatto quello del Vangelo. Altri nemmeno si pongono il problema di Dio: non sembrano sentire alcuna inquietudine religiosa, né riescono a capire perché dovrebbero interessarsi di religione. L'ateismo inoltre ha origine sovente, o dalla protesta violenta contro il male nel mondo, o dall'aver attribuito indebitamente i caratteri propri dell'assoluto a qualche valore umano, così che questo prende il posto di Dio. Perfino la civiltà moderna, non per sua essenza, ma in quanto troppo irretita nella realtà terrena, può rendere spesso più difficile l'accesso a Dio.”
Un passo che segue evidenzia comunque un salto fra le due catechesi:
“Per questo nella genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione.”
A tutti è chiaro infatti il grande silenzio della chiesa attuale su temi morali che un tempo dominavano (libertà sessuale, coppie di fatto, immoralità nel vestire, frequenza al culto…).
Il capitolo 20 della “Gaudium et spes” esamina, ovviamente deprecandolo, l’ateismo sistematico, ed in particolare sostiene:
“Tra le forme dell'ateismo moderno non va trascurata quella che si aspetta la liberazione dell'uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale. La religione sarebbe di ostacolo, per natura sua, a tale liberazione, in quanto, elevando la speranza dell'uomo verso il miraggio di una vita futura, la distoglierebbe dall'edificazione della città terrena. Perciò i fautori di tale dottrina, là dove accedono al potere, combattono con violenza la religione e diffondono l'ateismo anche ricorrendo agli strumenti di pressione di cui dispone il potere pubblico, specialmente nel campo dell'educazione dei giovani.”
Non so quanti fra gli stessi cattolici possano sottoscrivere tali affermazioni, visto che anch’essi sono per la maggior parte dediti alla edificazione della ‘città terrena’, ad uso della quale dimenticano con facilità i precetti religiosi. Meno che mai ci sembra che la nostra società faccia pressione sui giovani in senso antireligioso; semmai vale proprio il contrario, con l’accentuarsi della clericalizzazione della vita pubblica, almeno in Italia.
Ma soffermiamoci ora su alcuni passi del capitolo 21 “Atteggiamento della Chiesa di fronte all'ateismo”:
“La Chiesa, fedele ai suoi doveri verso Dio e verso gli uomini, non può fare a meno di riprovare, come ha fatto in passato, con tutta fermezza e con dolore, quelle dottrine e quelle azioni funeste che contrastano con la ragione e con l'esperienza comune degli uomini e che degradano l'uomo dalla sua innata grandezza.”
Qui l’uomo è giudicato dalla chiesa in quanto colto nel suo (soggettivamente non percepito) degrado, laddove nel corso di religione da cui siamo partiti è raffigurato come ‘impotente’ e ‘disperato’; un evidente mutamento di rotta nel racconto dell’esperienza religiosa.
Più avanti la “Gaudium et spes” si apre al colloquio con il non credente, in questi termini:
“Quanto agli atei, essa li invita cortesemente a volere prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto.”
Si noti bene: prendere in considerazione il Vangelo. Non si parla qui del problema dell’esistenza di Dio, che è ben altra cosa. Il Vangelo, come messaggio umanitario e per molti aspetti pratici, ci può anche andare bene: una prospettiva contro la quale probabilmente il pontificato attuale proporrà dei correttivi (ovvero, ricollocare dio e l’aldilà in primo piano).

Al termine di questo breve confronto fra un testo divulgativo e la sua remota fonte, è obbligo tornare ai motivi che mi hanno indotta a commentarlo.
La principale domanda che dobbiamo porci è questa: è possibile che giovani studenti, in un momento tanto delicato della loro formazione scolastica, siano così impunemente esposti ad un testo francamente confessionale, che non parla asetticamente di religione né di religioni, ma piuttosto inculca i principi ed i pregiudizi di una determinata religione favorita dallo Stato?
E dobbiamo anche chiederci: è accettabile che il testo in esame falsi così subdolamente quanto lo studente dovrebbe apprendere in seguito, ovvero la consistenza dell’ateismo nel mondo antico e la sua importanza (proprio in quanto corrente antireligiosa) nello sviluppo delle scienze e nella costruzione del mondo moderno?
La risposta ovviamente è no. Ma non basta affermarlo. Dopo avere impostato un contenzioso sull’ora alternativa, è tempo che si apra un nuovo capitolo nel contrasto alla clericalizzazione della scuola pubblica: è venuto il momento di controllare anche i contenuti dell’insegnamento religioso scolastico ed i testi a supporto. Fra i tanti argomenti da contestare, come oggi mi è parso opportuno segnalare, vi è la rappresentazione dell’ateismo, che non è per nulla obiettiva, ma come sempre  denigratoria se non diffamatoria.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: www.uaar.it (16 giugno 2009)