L’accresciuta spiritualità può essere effetto di una lesione o disfunzione cerebrale

Uno studio appena pubblicato da un’équipe italiana coordinata dal neuroscienziato Salvatore Aglioti, dell’Università La Sapienza di Roma e da Cosimo Urgesi, dell’Università di Udine (C. Urgesi, S. Aglioti, M. Skrap, F. Fabbro: The Spiritual Brain: Selective Cortical Lesions Modulate Human Self-Transcendence. Neuron, Vol. 65, n.3, pagg. 309-319), ha segnalato, per la prima volta, come lesioni selettive corticali producano una pronta e stabile modificazione di quello stato ‘mentale’ comunemente definito ‘autotrascendenza’ (i cui caratteri essenziali sono: una riduzione del senso del ‘sé’; una tendenza a sentirsi parte integrale del ‘tutto’; una maggiore credenza in fenomeni inspiegabili ed entità spirituali), che sarebbe normalmente modulato dall’attività di strutture anatomicamente e funzionalmente connesse con precise aree dei lobi temporali, ovvero le stesse la cui stimolazione o disfunzione produce le cosiddette ‘esperienze extracorporee’, da taluni ritenute prova dell’esistenza di un’anima o comunque di un ‘doppio immateriale’.
Per come descritto da questi ricercatori, la rimozione di tumori localizzati nella aree la cui attività determina come percepiamo il nostro corpo nelle sue relazioni spaziali con il mondo esterno (più esattamente il lobo parietale inferiore sinistro e il giro angolare destro) induce in moli soggetti una sensazione di ‘pace interna’ e di ‘apertura all’universo’, del tutto simili a quelle descritte dai mistici, suggerendo che le esperienze di costoro non riflettano altro che una modificazione funzionale di queste stesse aree, con l’effetto di una riduzione del senso del sé corporeo a favore della capacità di identificarsi come parte integrante dell'universo percepito come un tutto. In sostanza, l’allentamento dei confini del sé, l’accresciuto feeling con gli altri e con la natura, la percezione di un potere superiore, risultano direttamente generati dall’attività di una ben precisa struttura cerebrale.
Ciò che rende importante l’effetto post-chirurgico è il fatto inatteso che questo mutamento interiore si verifica nel soggetto operato con estrema rapidità ed indipendentemente dalle sue convinzioni religiose; ovvero, usando un linguaggio tradizionale, esso in un certo senso appartiene più al suo corpo che alla sua ‘anima’.

Il limite ovvio di questa ricerca è ovviamente la impossibilità di quantificare l’autotrascendenza se non soggettivamente, tramite questionari (ma del resto anche tutte le descrizioni dei mistici sono soggettive).
Questa esperienza ‘somatica’ di ‘partecipazione’ all’universo non va ovviamente confusa con quella ‘intellettuale’ della trascendenza, presente nel pensiero religioso; ma non può escludersi che proprio delle esperienze patologiche (come quelle dei mistici sottoposti a privazioni e sofferenze corporali) abbiano condizionato in tal senso il pensiero religioso, che le ha inserite in una ipotetica ‘supernormalità’.

La ricerca di Urgesi e collaboratori apre vasti fronti di discussione ed in particolare pone il problema (anche senza voler toccare la più vasta problematica della fede) se i mistici siano in definitiva persone con un cervello “particolare”; una generalizzazione, questa, già stigmatizzata dai credenti (vedi ad esempio ‘Avvenire’ dell’ 11 febbraio 2010).
Nella spiritualità si possono ovviamente distinguere almeno due aspetti: (a) la focalizzazione del pensiero su particolari contenuti, ed in particolare su quelli propri di ogni religione, e (b) le esperienze somatiche connesse.
In prima battuta, sono queste ultime quelle analizzate dai ricercatori italiani. Ma non vi è dubbio che la pratica mistica, tende proprio a produrre (o meglio a ‘liberare’) proprio queste esperienze somatiche, e dunque è piuttosto arbitrario stabilire un limite.
Per quanto riguarda l’attitudine dell’uomo a superare i confini spazio-temporali del corpo, occorre sottolineare che questa esperienza, ritenuta per certi aspetti ‘superiore’ alle altre, probabilmente appare tale solo per le sue connessioni con il pensiero religioso, allorquando potrebbe invece in buona parte riflettere una intrinseca debolezza (strutturale o funzionale) del sistema che presiede alla autorappresentazione mentale e del proprio corpo.
D’altra parte l’allentamento dei confini del sé non è necessariamente legato ad una esperienza religiosa, potendo attuarsi anche fra i praticanti ‘laici’ della meditazione.

L’attuale ricerca dà comunque un ulteriore colpo alle teorie dualiste della mente in quanto conferma che tutte le esperienze ‘psichiche’ hanno origine in strutture cerebrali bene identificabili, e che il loro svolgersi è correlato a fluttuazioni dell’equilibrio funzionale del cervello.
In effetti potremmo considerare la capacità di autotrascendenza in almeno un paio di modi: (a) come una ordinaria funzione cerebrale normalmente sottoposta ad un controllo ‘superiore’; (b) come una sindrome lesionale. Anche se ciò non deve indurre a considerare la ‘spiritualità’ come una patologia dello spirito, può certamente modificare la nostra idea di una sorta di gerarchia delle attività psichiche, facendola retrocedere fra quelle di livello ‘inferiore’ anziché collocarla nelle posizioni di vertice.
Ma ci sono altri interessanti aspetti. Se è vero infatti che un netto mutamento dell’attività modulatoria di alcune aree cerebrali su altre (tutte oggi identificabili con l’uso di tecniche di neuroimaging funzionale) può indurre rapide variazioni di alcuni tratti della personalità (che apparivano assolutamente stabili), conseguentemente è possibile modificare intenzionalmente tale attività modulatoria (ad esempio con la stimolazione magnetica transcranica) per trattare alcuni disturbi mentali.
Del resto, da più di un secolo è noto che il danneggiamento o la rimozione di alcune parti del cervello può indurre profondi cambiamenti nella personalità; e proprio questo effetto si cercava di ottenere con gli interventi di lobotomia in pazienti psichiatrici.

Ovviamente non bisogna confondere l’esperienza soggettiva (definiamola somatica) dell’autotrascendenza con i suoi contenuti, che sono determinati dalla cultura e dell’atteggiamento religioso. Ma l’esistenza di questi meccanismi non può affatto essere ignorata, giacché dimostra ancora una volta che non esiste un confine fra fede e scienza, e che la scienza assorbe sempre più gli spazi della fede.
Possiamo infatti comprendere, su di una base sperimentale, perché alcune persone sono così portate ad interpretare il mondo che le circonda attraverso un approccio sentimentale piuttosto che tramite l’osservazione e la ragione. E possiamo anche supporre che certi aspetti dell’atteggiamento religioso siano in qualche modo correlati a questa esperienza di perdita dei confini de sé: ad esempio l’incapacità di pensare razionalmente, di accettare la realtà, di immaginare che altri siano capaci di comprendere ciò che per noi è incomprensibile, di separare le favole dalle storie reali.
Ma è anche possibile andare oltre, ed immaginare che progressivamente molte altre caratteristiche della personalità ritenute oggi aspetti fondamentali del ‘sé’ in quanto parte della ‘naturale variabilità umana’, si dimostreranno legate a precise disfunzioni dell’attività cerebrale, che differenziano un individuo dall’altro allo stesso modo in cui differiamo l’uno dall’altro per il parametro ‘intelligenza’. Tutto ciò a riprova della fondamentale dipendenza della ‘persona’ dal cervello, e senza alcun bisogno di tirare in ballo entità immateriali quale l’anima.
Ciò comporta che anche questi ulteriori aspetti ‘anomali’ della personalità si presteranno ad essere trattati con approccio anatomo-funzionale.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: www.uaar.it (13 febbraio 2010)