Caterina da Genova, fra psicopatologia e misticismo
di Francesco D’Alpa, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Pubblicato su L'ATEO numero 4/2014
L’interpretazione e la giustificazione in chiave religiosa, in sé e negli altri, delle sociopatie, del disagio mentale ed ancor peggio della franca patologia psichiatrica, è uno degli aspetti più significativi delle religiopatie. Tanto più, se tale interpretazione viene proposta in tempi nei quali la conoscenza dell’uomo è fortemente orientata in senso scientifico. Il caso di Caterina Fieschi Adorno (1447-1510), santa e mistica, celebre per il suo “Trattato del Purgatorio”, è ben esemplificativo di questa deriva.
La vita
Ultima di cinque figli, già orfana del padre alla nascita, Caterina, che appartiene ad un ricco e potente casato genovese, cresce in un ambiente colto, nel quale predomina comunque l’insegnamento religioso. Dopo un’infanzia solitaria, giunta ai 13 anni manifesta il desiderio di entrare in convento, sull’esempio della sorella maggiore, ma viene rifiutata per la troppo giovane età. Tre anni dopo, per convenienze politiche, diviene sposa infelice di Giuliano Adorno, esponente di altra importante famiglia genovese; caratteri e abitudini di vita degli sposi sono infatti assolutamente incompatibili. Dopo circa cinque anni trascorsi in triste solitudine ed altri cinque nei quali accetta a malincuore un genere di vita meno austero e più appropriato al suo rango, nel 1473 Caterina, nel pieno di una grave episodio depressivo, ha una intensa esperienza “mistica” (o forse “psicotica”: contrassegnata da violente sensazioni corporee, visioni, autoaccuse) che produce in lei una cosiddetta “conversione”. Da questo momento intraprende un percorso di preghiera, mortificazioni e digiuni; e successivamente inizia a dedicarsi all’assistenza dei poveri e degli ammalati.
Ben presto il marito, incapace sia di occupare pubblici impieghi sia di amministrare i propri beni, subisce dei rovesci finanziari ed intraprende anch’egli un percorso di “conversione”, affiancando la moglie nelle opere di carità ed entrando perfino nel terzo ordine francescano. Infine i due decidono di praticare un regime di assoluta castità coniugale e vanno a vivere in un modesto alloggio all’interno dello stesso Ospedale Pammatone, nel quale prestano principalmente la loro opera (e di cui Caterina diverrà in seguito rettora). Ben presto intorno a loro si viene a formare una sorta di cenacolo di aiutanti, ammiratori ed imitatori di Caterina. Nel 1497 Giuliano viene colpito da una grave malattia che lo conduce rapidamente a morte; ma, diversamente da quanto è comune al quel tempo fra le vedove, Caterina non si ritira in convento, e prosegue la sua vita al Pammatone. Dopo circa un anno, tuttavia, viene sollevata dall’incarico di co-rettora, a causa del suo cattivo stato di salute. Nel frattempo, dopo 25 anni di assoluta autoreferenzialità, accetta come direttore spirituale don Cattaneo Marabotto, che diventa il suo più intimo confidente, e sarà uno dei suoi primi biografi.
Negli ultimi 10 anni di vita Caterina, che neanche dopo la “conversione” aveva raggiunto un soddisfacente equilibrio mentale, è in preda a crescenti sofferenze fisiche e psichiche, sempre più chiusa in se stessa, debole e languida: il suo confessore la definisce “creatura vivente nella carne ma senza la carne. Quanti le stanno intorno cercano inutilmente di darle sollievo e di spiegare le sue strane malattie (che secondo gli agiografi sono di origine sovrannaturale, provocate dalla frequenza delle estasi e dall’intensità del “fuoco interiore dell’amore divino”). La morte la libera da una lunga e penosa agonia. Nel 1737 viene proclamata santa e nel 1944 co-patrona degli ospedali italiani.
L’interpretazione agiografica
Per comprendere la personalità e la storia intima di Caterina abbiamo a disposizione quasi solo il corpus delle sue presunte opere (“Vita”, “Dialogo spirituale” e “Trattato del Purgatorio”), redatte a più mani alcuni decenni dopo la sua morte, nelle quali viene narrato un percorso spirituale che giunge felicemente ai più alti gradi di perfezione [1],
Al di fuori della più consolidata tradizione agiografica (secondo la quale i santi ovviamente non patiscono problemi mentali, ma al più la fragilità umana) a partire da questi scritti è tuttavia ben ricostruibile una storia diversa, orfana del soprannaturale, che ha per protagonista una donna passata dagli iniziali disagi esistenziali ad una franca patologia psichiatrica: essenzialmente, un lungo episodio depressivo (di varia intensità) iniziato forse già all’epoca del matrimonio e durato almeno fino a qualche mese dopo la “conversione”, ovvero per oltre 10 anni, seguito da altri 25 di dubbio benessere, ed infine da una lunga ricaduta nello stato depressivo iniziale, ma contraddistinto stavolta da imponenti manifestazioni istero-anorettiche. La patologia psichiatrica è così evidente in Caterina, che gli agiografi non possono ometterne del tutto la menzione, precisando comunque che non ne inficia la santità. Per usare le parole dei primi biografi: il “vero sé” di Caterina emerge netto all’interno delle sue sofferenze (dopo anni di cedimento ad un “falso sé”).
Secondo la “Vita”, l’infante Caterina è già un modello di santità precoce: vive con semplicità, aborrisce le delizie, prega a lungo, fa penitenze. Ma a questa descrizione retorica va sostituito il ben più verosimile ritratto di una bambina solitaria, poco o nulla interessata ai giochi ed ai divertimenti, scarsamente empatica, ligia ai doveri domestici ed a quelli religiosi. La sua aspirazione monacale, più che una vocazione, rifletterebbe il desiderio di rimediare al proprio disadattamento familiare e sociale.
Per questi motivi il matrimonio che le viene imposto, con un uomo così diverso da lei, si rivela catastrofico. Giuliano (anch’egli orfano di padre) è duro di cuore, violento, donnaiolo, amante del gioco, del lusso e di ogni altro divertimento; ama stare in società e dedicarsi alla caccia. Caterina (che pure, secondo i biografi, ha bellezza fisica, umore gradevole e spirito forte) non sopporta la vita mondana, preferendo la solitudine e le pratiche religiose, che il marito disprezza.
Non solo il carattere dei coniugi è inconciliabile, ma nessuno dei due è disposto a fare alcuno sforzo per adattarsi all’altro. Così Caterina, che è la parte debole in questo rapporto, si chiude per cinque anni in una penosa solitudine. In cerca di conforto nelle pratiche religiose, passa giornate intere prostrata davanti ad una immagine del Cristo, pregando e piangendo; senza alcun sollievo, con grave pregiudizio per il suo stato di salute. I suoi parenti la ritengono prigioniera di una pericolosa malinconia originata dalla propria condotta, in particolare dal suo rifiuto di conformarsi a quanto imporrebbero il suo stato coniugale e la sua condizione sociale; e dunque cercano di sollecitarla in tal senso, andando incontro al marito. Di fronte a queste sollecitazioni, Caterina si lascia infine convincere, tra mille esitazioni, ad aprirsi in qualche modo alla vita sociale; ma sente nel suo animo come ingaggiata una lotta fra il bene ed il male. E dopo cinque anni di “dissipatezza” precipita in quella crisi che ne cambierà radicalmente la vita. Da questo momento, ogni avvenimento esteriore ed ogni mutamento interiore saranno sempre interpretati ed elaborati (da Caterina, così come dai suoi compagni e biografi) come parte di un cammino spirituale verso la perfezione.
La “conversione” tuttavia non libera Caterina (come farebbero intendere i biografi) dai suoi problemi, anzi li accentua. Ma aggiunge qualcosa: un continuo riferimento a Dio, una presa di coscienza dei presunti peccati personali, che sembra finalmente fornire dei “contenuti” all’ideazione depressiva della giovane, che si sente nello stesso tempo attratta da Dio tramite un “raggio d’amore” e messa alla prova con sofferenze di ogni genere.
Privazioni e penitenze volontarie compromettono progressivamente il suo stato di salute. Ma gli agiografi non vedono in tutto ciò nulla di malato. Quella che appare a noi come una via di fuga psicologica, viene da loro esaltata come meritoria immedesimazione nelle sofferenze di Cristo in Croce. Quando, dopo 14 mesi vissuti nell’abisso, si fa strada una inattesa “guarigione”, tutto il male dell’animo si scioglie come neve al sole. Il merito viene naturalmente attribuito all’azione della grazia divina su di un’anima propensa a riceverla: il che dà un senso alla malattia mentale ed imprime una ulteriore svolta alla vita di Caterina, che da questo momento sarà orientata da un assoluto monoideismo, ma anche da iperattività ed espansività. Caterina ora si astrae facilmente ed a lungo dal mondo esterno, vede e sente con la mente più che con i sensi, cade in “estasi” anche per ore; altre volte è presa da una agitazione inspiegabile, che si trasforma facilmente in blocco mentale.
La morte di Giuliano, sul finire del 1497, dopo una breve e tormentosa infermità, incide ben poco sulla sua condotta di vita; oramai è totalmente concentrata su se stessa, quasi indifferente (o forse rassegnata) rispetto a quanto le accade intorno; lo stesso si verifica al momento della morte degli altri familiari. Gli ultimi anni sono contrassegnati dall’aggravarsi dei disturbi psico-fisici, da una crescente chiusura in sé, da un’alternanza di momenti depressivi o di euforia, da episodi di irrequietezza motoria, dalle note isteriche, dalla anoressia, da una sempre minore consapevolezza del suo stato. Caterina sembra ripiombata nello stato mentale che aveva caratterizzato gli anni precedenti ed immediatamente successivi alla “conversione”: depressione, ossessione del peccato (anche in assenza di colpe reali). Quanto, a questo punto, il suo stato mentale dipenda da quello fisico o, inversamente, quanto quello fisico sia conseguente al mentale è difficile comprenderlo. Per gli agiografi, ovviamente, in tutto questo c’è lo zampino del soprannaturale, il cui marchio infallibile è rilevabile soprattutto nelle lunghe estasi delle quali sarebbe stata beneficiata soprattutto negli ultimi mesi di vita.
La fama
Von Hugel (il più analitico fra i moderni biografi della santa genovese) distingue fra “popolarità” e “grandezza” di Caterina, e naturalmente dà un valore maggiore a quest’ultima [2]. Ma è indubbio come, dal punto di vista storico, il vero e proprio culto di Caterina cominci solo alla scoperta (nel maggio o giugno del 1512) della relativa incorruzione del suo corpo, con la sua identificazione in “reliquia” miracolosa. La santità viene invece “elaborata” in gran parte a posteriori, dapprima sulla base della sua fama di donna caritatevole, poi su quella dei suoi presunti scritti. In realtà, è difficile classificare il cosiddetto lascito di Caterina come “pensiero” teologico originale, tale è la commistione fra i suoi stati d’animo, la sua autopercezione e fumose dottrine religiose.
Il “Trattato” ed il “Dialogo” risentono infatti ampiamente dell’apporto teologico di vari epigoni: ad esempio di Battista Vernazza (figlia di Ettore Vernazza, che fu il più importante fra i “seguaci” di Caterina), importante autrice di varie opere mistiche – e probabilmente artefice del collegamento fra le autodescrizioni di Caterina – ed un contesto dottrinario più ampio (dalla tradizione giudaica alla filosofia greca, ai neo-platonici, alle grandi opere di mistica) che è assolutamente improbabile Caterina conoscesse direttamente. Niente di strano dunque che il “Purgatorio” descritto da Caterina non sia un luogo fisico, ma piuttosto la rappresentazione simbolica di stati d’animo e sofferenze individuali.
Fra agiografia e psichiatria
Nel tracciare un profilo, “umano” più che “mistico”, di Caterina va messo in debito conto il disordine espositivo presente nel corpus cateriniano, nel quale la scansione temporale degli eventi, del pensiero e del mondo emozionale della donna è in gran parte sostituita da una raccolta tematica, come a voler dare coerenza agiografica a fatti esteriori e ad elementi della personalità anche notevolmente discordanti. Caterina (ma non può essere diversamente in quest’epoca) non ha ovviamente alcuna chiara cognizione del significato dei suoi stati mentali e considera il loro alternarsi come effetto di “operazioni divine”; non può rendersi conto della sua patologia psichiatrica, a differenza dei familiari e del marito, che a lungo la spronano a fuggire dalla solitudine e dalla “malinconia” (salvo poi ad arrendersi a fatti per loro “inspiegabili” come i lunghi digiuni e le estasi).
Secondo von Hugel (che è del tutto convinto a priori della santità di Caterina e della sovrannaturalità della sua esperienza) non esiste alcuna relazione fra i disturbi psico-fisici ed il misticismo, giacché il “corporeo” non può generare lo “spirituale”, ed al massimo può fornire occasioni o materiali per il suo sviluppo. A suo giudizio, Caterina è divinamente ispirata, ma soffre del contrasto fra quanto proviene dall’alto e la sua natura materiale imperfetta: un giudizio che ha solido fondamento nella metafisica cattolica, secondo la quale le funzioni dell’anima possono trovare difficoltà ad esprimersi per impedimenti dovuti alla materialità.
Ben diversamente, la vita di Caterina non può che essere analizzata da noi moderni in termini psicologici e psichiatrici. Già ad uno sguardo superficiale è possibile trovare in lei una costellazione di elementi più o meno “anormali”; ad esempio, i tratti di una depressione strisciante iniziata già nell’infanzia, e che è divenuta gradualmente parte della sua stessa personalità, se non proprio la “sua” personalità, con una incorporazione precoce dei temi religiosi nel vissuto depressivo. Non è per nulla sorprendente che gli agiografi esaltino in Caterina quei tratti della personalità che derivano in lei non da una maturità psicologica ed affettiva ma dal suo esatto opposto: atteggiamento di dipendenza, annullamento di se stessa, ossessioni, orrore del peccato e della sensualità, sentimenti di colpevolezza ed indegnità, abbandono alla volontà altrui, diffidenza verso se stessa, mancanza di orgoglio.
L’umiltà, ad esempio, è uno dei tratti della personalità di Caterina più ammirati dagli agiografi. Umiltà di fronte a Dio, ma anche umiltà di fronte ai suoi simili: sentirsi un niente; non riconoscersi alcun merito personale; ritenere di non potere fare nulla da sé senza l’aiuto della grazia divina; evitare perfino di riconoscere la propria cattiveria, per non attribuirsene il merito. Questa umiltà ha i chiari tratti del senso di indegnità e colpevolezza del depresso; ma Caterina ha elaborato una via di fuga alla sua depressione, immaginando di ricevere del bene da Dio, e che lei stessa è mediatrice del bene che viene da Dio.
Soprattutto dopo la “conversione”, Caterina esibisce una moltitudine di comportamenti comuni alla patologia psichiatrica ed alla cultura penitenziale cattolica: mortifica tutti i sensi; rifiuta ogni piacere; riduce il sonno; indossa cilici; non mangia carne né frutta e rende disgustoso (con aloe, aceto, e sale pesto) ogni altro alimento gradevole; sfugge la conversazione ed i rapporti umani; prega molte ore al giorno. Ma non sa spiegarsi il motivo delle sue mortificazioni e sofferenze, e non vuole neanche interrogarsi su di esse. Lo stesso avviene quando inizia il periodo “espansivo” della sua vita; anche qui non sa spiegare, né lo desidera, il perché della fine delle mortificazioni. Si direbbe che essa, in entrambi i momenti, subisca ciò che le viene dall’interiore, falsamente interpretato come effetto di una azione divina. Nel primo caso, ai nostri occhi, è evidente il soccombere alla depressione “endogena”; nel secondo caso lo svanire (anche al di fuori di qualunque evento biografico) della stessa depressione, con eventuale viraggio nella opposta tonalità affettiva.
È possibile che Caterina viva frequentemente, anche al di fuori di vere e proprie crisi depressive, esperienze e sentimenti di depersonalizzazione. Ma la sua cultura fa sì che queste esperienze siano non solo subite ma perfino ricercate, soprattutto nel cosiddetto “periodo penitenziale” seguito alla “conversione”, come momenti di esaltazione mistica. Superata questa fase, in cui prevale (secondo gli agiografi) l’auto-annientamento della volontà, Caterina è preda di quello che in psichiatria fu definito “stato teopatico”, del quale resta prigioniera per quasi tutto il resto della vita. In questo stato è talmente prigioniera della propria affettività da svolgere le normali attività in modo quasi meccanico; è come dissociata dalla propria personale volontà ed invece guidata da una forza esterna: deve fare resistenza a se stessa quando vuole compiere un atto che percepisce come “libero”.
Ma gli agiografi spiegano tutti questi elementi, tipici di una severa patologia mentale, come tratti mistici e come contrassegni del soprannaturale; in modo particolare riguardo tutte le manifestazioni isteriche ed anorettiche dell’ultimo periodo della vita. Marabotto e Vernazza, ed i loro epigoni (in base al loro retroterra culturale) potevano in un certo senso permettersi questi errori, ma all’epoca di von Hugel le conoscenze psichiatriche erano così sufficientemente volgarizzate da doversi pensare ad una mistificazione interpretativa.
Bibliografia
[1] C. Marabotto, E. Vernazza (1551), Vita mirabile e dottrina celeste di santa Caterina Fieschi Adorno da Genova.
[2] Friedrich von Hügel (1908-1923), The Mystical Element of Religion: as studied in Saint Catherine of Genoa and her friends.