Un campione della scienza cristiana?

di Francesco D’Alpa    Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 Pubblicato su L'ATEO numero 1/2015

L’apologetica ‘antiscientista’ ha recentemente proposto Mendel come testimonial del vantato perfetto accordo fra scienza e fede. E su questa scia sono stati proposti i ‘Mendel Day’ (secondo l’assunto che solo una buona fede produce una buona scienza) in contrapposizione ai ‘Darwin Day’ elogiativi della scienza ‘riduttiva e materialista’. In verità, l’esaltazione delle virtù cristiane del Mendel scienziato viene proposta da opere di basso livello, con una biografia semplicista e immotivatamente di parte. Sulla base di una di queste, nel 2009 è stato anche prodotto un film “Il giardiniere di Dio”, ritratto edulcorato della vita di un monaco che guidato dalla fede svela le ammirevoli leggi della generazione in cui si rispecchia la creazione. Niente di più facile che obiettare che tutto ciò ha ben poco a che fare con la biografia di Mendel e con il senso delle sue ricerche.

Partiamo dunque dall’inizio, dalla vocazione monacale. Mendel, figlio di contadini (ovviamente credenti, per tradizione, né più né meno del resto della popolazione) ha una precoce inclinazione non certo per la fede ma piuttosto per le scienze; e non a caso per tutta la vita manterrà una vocazione sperimentale multiforme (botanica, meteorologia, apicoltura…). Ma tale vocazione si scontra con insuperabili ostacoli di natura economica, e non bastano i sacrifici suoi, dei genitori e di una sorella (che rinuncia alla sua dote per favorirlo) a mantenerlo agli studi. La soluzione ai suoi problemi è una scelta di convenienza, la stessa fatta in ogni tempo da tanti bisognosi: nel 1843, all’età di 21 anni, entra nel monastero agostiniano di San Tommaso a Brunn; qui trova non solo vitto, alloggio e sostegno economico per continuare gli studi, ma anche accesso ad una importante biblioteca, aperta anche a testi ‘positivisti’ che altrove sarebbero banditi dal clero. All’università di Vienna segue i corsi di agricoltura e viticoltura, apprende da Franz Diebl  (1770-1859) i metodi di impollinazione artificiale elaborati per migliorare la qualità delle piante; segue le lezioni di Franz Joseph Andreas Unger (1800-1870) sulle teorie della mutazione delle specie e dell’antichità della terra, e quelle sulla teoria cellulare di Rudolf Virchow (1821-1902) applicata alla fertilizzazione delle piante. Diviene membro della Società di zoologia e botanica di Vienna, e comincia i suoi esperimenti di ibridazione delle piante, che proseguirà poi per alcuni anni nell’orto del convento.

Più che a Dio sembra totalmente devoto alla matematica ed alla  botanica, come in seguito lo sarà alla meteorologia ed all’allevamento delle api. Dir messa è solo una incombenza minore nella vita dello scienziato in formazione; i suoi maestri non sono i testi biblici ma il meglio della scienza ottocentesca locale. Con l’animo del contadino intento a migliorare la rendita dei propri campi, Mendel perfeziona nel suo studio e nel giardino del convento la scienza dell’ibridazione, e comprende, da buon matematico impregnato di sano metodo cartesiano, alcune regole dell’eredità finora sfuggite (ma senza dubbio già prefigurate da molti) ai botanici, fin qui interessati più alle ‘specie’ che non ai ‘caratteri’.

Tutto ciò indubbiamente non c’entra nulla con il gusto di scoprire le segrete armonie del creato. Il Mendel uomo di chiesa si conoscerà dopo; quando l’assenza nel mondo scientifico di riscontri ai suoi calcoli ed il fallimento di esperienze analoghe su altri vegetali lo indirizzeranno ad altro genere di ricerche; e soprattutto dal momento in cui, eletto alla guida del convento, si occuperà più della sua amministrazione che delle amate coltivazioni. 

Quanto era dunque intriso di fede cristiana il lavoro di Mendel? É giusto farne un campione dell’armonia fra scienza e fede? Ed in particolare, visti i tempi in cui visse ed i relativi conflitti ideologici, è possibile leggere i suoi studi in chiave anti-positivista ed anti-evoluzionista?

Niente di più facile che trovare nella storia personale di Mendel ampi riscontri della sua adesione al trasformismo ed all’evoluzionismo: la sua filiazione scientifica; l’interesse per il lavoro di Darwin, cui aveva anche inviato una copia della sua relazione; l’innegabile riscontro in senso pro-evoluzionista che ebbero immediatamente le sue ricerche dopo la loro riscoperta al volgere del secolo, allorché sembrarono potere fornire un convincente riscontro alle idee di Darwin.

Il fatto che Mendel fosse un credente, ed ancor più un religioso, in tutto questo non c’entra evidentemente nulla. Nel suo lavoro scientifico non vi è né cenno a Dio, né conferma a dati biblici; semmai, a ben leggere (come hanno fatto i positivisti) la conferma di tutto quanto veniva a sconfessare la ‘scienza’ biblica.

Non solo riguardo ai fini della ricerca, ma anche dal punto di vista metodologico, Mendel dà la netta impressione di non dovere quasi nulla alla fede cristiana. Ma qui conviene passare dal caso particolare a quello generale. Dire che uno scienziato è credente, come nel caso di Mendel, non implica che la fede abbia una importanza decisiva nella sua ricerca; anzi appare abbastanza evidente come spesso i due ambiti della scienza e della religione vengano tenuti prudentemente distinti. Ed è proprio su questa ambiguità che gioca l’apologia per spacciare come ‘scienza cristiana’ ogni buona scienza praticata dal credente. Nella loro rivisitazione moderna da parte della Chiesa romana, i casi di Copernico e Galileo, sinceri credenti, sono paradigmatici: li si accredita infatti oggi di avere fatto della buona scienza in quanto indagatori delle leggi che reggono il creato, ma purtroppo vittima il toscano di un clima culturale a lui sfavorevole.

Ma quanto regge l’equazione ‘buona fede uguale buona scienza’? Quanti sono realmente gli scienziati ispirati dalla fede? Quanti quelli in cui la fede sopravvive al disincanto della scienza? Ovviamente non possiamo dare alcun valore alla propaganda di parte cattolica: è ben chiaro che in partenza quasi tutti quelli che hanno costruito nei secoli la scienza moderna occidentale erano invariabilmente cristiani per via di battesimo e di pratiche religiose consuetudinarie; per cui sembra quasi inutile farne un elenco. Ma quanti erano ancora totalmente cristiani nel momento in cui si chiudevano nel loro laboratorio?

Per dare una risposta a questa domanda occorrono dati precisi, quantitativi; e ne abbiamo di importanti. La prima importante ricerca scientifica sulla religiosità e la credenza fra gli scienziati è quella dello psicologo statunitense James H. Leuba, condotta a due riprese nel 1914 [1] e nel 1933 [2]. Nella prima venne chiesto a 1000 scienziati statunitensi quale fosse la loro posizione rispetto alla credenza in un dio personale e all’immortalità dell’anima: il 58% dichiarò di non credere all’esistenza di Dio o di esserne dubbioso. Selezionando all’interno di questo campione i 400 scienziati più importanti la risposta era ancora più netta: solo il 27,7 % credeva in Dio, il 52,7 % no, il 20,9% era agnostico o dubbioso; rispetto all’immortalità dell’anima il 35.2% vi credeva, il 25,4% no, il 43,7% era agnostico o dubbioso. Certamente un risultato deludente, in un’epoca nella quale la maggior parte della popolazione si dichiarava credente e ossequiosa ai dettami della Chiesa.

Ripetendo la ricerca nel 1933, Leuba trovò percentuali ancora più elevate di non credenti: dei migliori 400 scienziati interrogati, stavolta solo il 15% credeva in Dio, il 68% non vi credeva ed il 17% si dichiarava agnostico o dubbioso; la credenza nell’immortalità dell’anima era nel frattempo scesa al 18%, contro il 53% di non credenza ed il 29% di agnostici e dubbiosi.

Il trend verso la non credenza è stato ampiamente confermato da una recente ricerca, eseguita riproponendo pressappoco i metodi ed il questionario di Leuba. In questo caso, la credenza in Dio era ulteriormente scesa al 7%, con il 72,2% di non credenti ed il 20,8% di agnostici e dubbiosi; la credenza nell’immortalità dell’anima era scesa al 7,9% contro il 76,7% di non credenza ed il 23,3% di agnostici e dubbiosi. [3]

Non deve sorprendere che questa ricerca abbia suscitato un forte risentimento in parte della comunità scientifica, che ne ha criticato il metodo se non i fini. Ma molte ricerche analoghe, ed anche la comune percezione, la confermano. Ecco dunque il motivo per il quale dal mondo cattolico si levano qua e là voci sempre più disperate, che rivendicano un presunto primato nelle scienze che la religione in realtà ci sembra non avere mai avuto.

L’ultima ragione di scandalo, per i credenti, è un articolo nel quale Ricki Lewis, docente presso l’Università dell’Indiana, spiega i motivi per i quali non citerà più nella prossima edizione del suo testo di genetica ("Human Genetics: Concepts and Applications") Mendel con le sue leggi, o al massimo lo ‘seppellirà’ in appendice: in tempi di genomica abbiamo bisogno di imparare soprattutto ciò che andiamo giornalmente scoprendo di nuovo, sul funzionamento del DNA e dell’RNA e sulle malattie genetiche; nel momento in cui anche il concetto di “un gene una proteina” è stato superato, hanno oramai ben poca importanza quelle semplici esperienze ottocentesche sui piselli a gambo lungo o corto, o lisci o rugosi. [4] La Lewis non è affatto l’unica a pensarla così; sulla stessa linea troviamo tutta una generazione di docenti di biologia, fra i quali Rosemary Redford della University of British Columbia, per la quale nell’epoca in cui chiunque può facilmente ordinare su Internet i test sul DNA i famosi esperimenti sui piselli descritti da Mendel nel 1865 non hanno più alcuna importanza né interesse, così come ha perso interesse tutto il folklore creatosi intorno al monaco raffigurato come presunto Galileo della genetica. [5]

Sull’importanza di Mendel nella storia della genetica si può comunque discutere, ma sul ruolo della religione nel suo profilo di scienziato forse sarebbe meglio non insistere.

 

[1] Leuba J.H. (1916): The Belief in God and Immortality. A Psychological, Anthropological abd Statistical Study. Sherman, French & Co. Boston.

[2] Leuba J.H. (1934): Harper’s Magazine, 169, 291-300.

[3] Larson E.J., Withan L. (1997): Leading scientists still reject God. Nature, 386, 435–436.

[4] Lewis R. (2012): Hidden Meanings in Our Genomes and What to Do with Mendel. Scientific American. 20 agosto.

[5] Redford R. (2012): ‘Why do we have to learn this stuff?’A New Genetics For 20th Century Students. http://www.plosbiology.org/