Recensione

Ernst Bloch, Ateismo nel Cristianesimo. Per la religione dell'Esodo e del Regno. «Chi vede me vede il Padre» 
Edizione italiana (2005)
ISBN 978-88-0781850-9
Feltrinelli, pag. 368

di Francesco D'Alpa

Radicale come sempre nelle sue tesi, in questo come nel precedente saggio “Principio speranza” (del 1959) l’autore espone (pur riconoscendo l’importanza della religione ed il suo rispondere ai desideri più profondi dell’umo) una interpretazione antiteologica del cristianesimo e dello stesso giudaismo, ricollocandoli in una visione utopistica con al centro l’uomo e non il trascendente.

Per Bloch una reale rivoluzione socialista con al centro l’uomo è la vera buona novella attesa dall’uomo, liberatosi dai miti, dalla chimera della trascendenza, dal timore di Dio, dalla tradizione patriarcale, dal potere dei teocrati. Ma questo frutto non può derivare dall’ateismo nichilista (senza implicazioni e votato alla disperazione), né da un illuminismo fattosi fisso e statico, quanto dalla demistificazione concreta della religione, operata dall’intelletto umano. Occorre afferrare “il vivo senza religione traendolo dalla religione morta, il trascendere senza trascendenza, il soggetto-oggetto della fondata speranza”. Bruciati l’oppio e l’aldilà, scomparso il tabù del timore, resta in scena l’uomo con i suoi misteri non più terrifici, orientato alla libertà e ad un trascendere senza autoalienazione. L’ateismo di Bloch è dunque una teologia della speranza, nella convinzione che “solo un ateo può essere buon cristiano, solo un cristiano può essere buon ateo” (perché un cristiano ipocrita è il peggiore fra gli atei).