La Chiesa e Mammona: fra carità e sussidiarietà

di Francesco D’Alpa  (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

 

A che fine la Chiesa cattolica, che non ha certo fra le sue finalità quella di assicurare l’ordine ed il benessere temporale, pressa tanto, oggi, sul tema della sussidiarietà, non sempre a ragione coniugato con quello della carità?

Leone XIII, più che preoccupato dalla montata socialista, pensò bene (con la Enciclica ‘Rerum Novarum’ del 1891) di rivendicare a sé e alla sua istituzione i meriti del crescente interesse per le condizioni dei lavoratori e del proletariato, ricollegandolo ai tradizionali principi cristiani della giustizia e della carità; ed in tale veste fu esaltato nel 1931 dal suo successore Pio XI (Enciclica ‘Quadragesimo anno’).

Sui meriti e demeriti dei documenti papali e sui suoi evidenti (giustificati o meno) ritardi rispetto ai fermenti sociali ed alle idee del tempo si è discusso molto, da una parte esaltando il papa attento ai più deboli, dall’altra contestandogli il non troppo celato tentativo di salvare il salvabile a pro delle classi più agiate e dell’ordine costituito, fortemente minacciato dalle forze sociali emergenti. Ma non intendo soffermarmi su questo, quanto piuttosto cogliere l’occasione per esaminare, alla luce di quei due documenti, un’idea attuale dei cattolici nostrani in quanto a sussidiarietà, e contestare la loro presunta sostanziale primogenitura del concetto.

‘Sussidiarietà’, ovvero “principio regolatore in alcuni sistemi di scienza politica, tale per cui, se un ente che sta ‘più in basso’ è capace di fare qualcosa, l’ente che sta ‘più in alto’ deve lasciargli questo compito, anche sostenendone eventualmente l’azione” (così si legge ad esempio su Wikipedia). Ma fare qualcosa in che senso? Nel nostro caso, evidentemente, sul piano materiale, in particolare nell’ambito dei servizi (assistenza sociale, scuole, sanità, etc…). Se l’intervento sul sociale da parte di quelli che vengono definiti ‘corpi intermedi’ (ovvero famiglie, associazioni, partiti) è efficace (e non ne contrasta le prerogative, l’organizzazione, le funzioni, le attività di controllo e quant’altro), lo Stato deve lasciarli fare. Ma a questo punto sorge il problema sul quale è centrato questo numero dell’ATEO: quale contropartita può o deve avere questa attività dei corpi intermedi? Denaro, privilegi, o che altro?

 

Torniamo a Leone XIII ed alla sua perorazione antisocialista ed antistatalista, certamente più interessata agli interessi della Chiesa che a quelli dei lavoratori. Essa esordisce con una difesa dell’individuo rispetto allo Stato (per quanto riguarda proprietà, potestà genitoriale, educazione): "l'uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso […] Non v'è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l'uomo è anteriore alto Stato […] È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia” [RN, 6 e 11]; a meno che non lo impongano dei bisogni materiali estremi: “Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l'intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale” [RN, 11].

Ma veniamo al cuore della questione sociale. Leone XIII sostiene che “se si prescinde dall'azione della Chiesa, tutti gli sforzi [tesi a risolverla] riusciranno vani” [RN, 13]. Ma cosa in effetti ne pensa più in generale (e da sempre) la Chiesa? Lo ricorda lui stesso: che esiste una “necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso” e che vige un principio generale secondo il quale, “ad espiazione del peccato”, “si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile” [RN, 14]. Cosa ci suggerisce allora la carità cristiana: sul piano teorico, che “le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l'animo non si eleva ad un'altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l'intera creazione diventa un mistero inspiegabile […] la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all'eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa” [RN, 18]; sul piano pratico, che “l'uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all'altrui necessità” [RN, 19].

In quanto ad azione ‘pratica’, da sempre e conseguentemente, secondo Leone XIII, “la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo”  [RN, 24]. Ed infatti: già nel tempo antico, “Tertulliano chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani d'ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi. Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l'eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa” [RN, 24].

Ecco dunque  il nodo del problema: secondo Leone XIII, la Chiesa ha da sempre promosso la carità (nel senso anche di assistenza materiale) fra i suoi fedeli, ed il suo patrimonio viene gestito dai “sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante specie a cui dà vita l'autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli” [RN, 39]. Essendo il fine onesto, questa attività caritatevole e questo patrimonio, debbono essere difesi dalle pretese che hanno gli stati di arrogarsene le competenze.

Si tratterebbe, per molti commentatori soprattutto di parte, di un abbozzo del principio di ‘sussidiarietà’; ma, a mio avviso,  lo sarebbe semmai solo in chiave difensiva, contestuale al momento politico: dopo la perdita del potere temporale, la Chiesa cerca infatti anche per questa via di mantenere innanzitutto un primato ideologico e morale, oltre che dei privilegi materiali. Siamo in ogni caso ben lontani da una teoria compiuta; tanto più su tali premesse. E comunque, a dire il vero, la Chiesa giunge anche qui in ritardo con i tempi: ci aveva infatti pensato già la Costituzione degli Stati Uniti a mettere nero su bianco il principio di sussidiarietà; e con una importante differenza, che ci porta a contestare certi risvolti attuali del concetto: secondo tale Costituzione lo Stato non deve affatto sostenere economicamente i corpi intermedi (ed in particolare le Chiese).

La versione attuale della sussidiarietà invece, secondo la Chiesa, non è un intervento da essa operato con i propri mezzi (come chiedeva Leone XIII, che voleva una Chiesa autonoma e pienamente libera di agire sul sociale), ma una vera e propria impresa commerciale (su più ambiti) gestita pienamente dalla Chiesa ma con un forte supporto economico dello Stato, simile se non maggiore di quello a favore di qualunque altra attività concessa in gestione (igiene urbana, servizi sanitari, ristorazione, trasporti etc). Quale è allora il rapporto fra questa forma di sussidiarietà e quella in embrione ai tempi di Leone XIII?

 

Facciamo un passo indietro. Nel 1931 Pio XI celebra il quarantennale della ‘Rerum Novarum’ e ne aggiorna i contenuti: prima soffermandosi sul concetto di carità“vincolo della perfezione” e per la quale “quando pure si supponga che ciascuno abbia ottenuto tutto ciò che gli spetta di diritto, resterà sempre un campo larghissimo” [QA, 138]; poi formulando (credo per la prima volta nei documenti papali) quello vero e proprio di sussidiarietà:  “è necessario che l'autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso” [QA, 81]. 

Dunque in entrambi i casi esplicitati da Pio XI (carità e sussidiarietà) la Chiesa (o i singoli cristiani) possono (o debbono, ‘cristianamente’) intervenire sostanzialmente con i propri mezzi (spirituali e materiali). Ma quali mezzi? In quanto ai singoli “Non sono neppure abbandonate per intero al capriccio dell'uomo le libere entrate di lui, quelle cioè di cui egli non abbisogna per un tenore di vita conveniente e decorosa; ché anzi la sacra Scrittura e i santi Padri chiarissimamente e continuamente denunciano ai ricchi il gravissimo precetto da cui sono tenuti, di esercitare l'elemosina, la beneficenza, la liberalità” [QA, 50]; bene! E in quanto alla Chiesa? Qui la questione si fa spinosa, ed il papa si prodiga in un penoso esercizio apologetico. Vediamo come.

Secondo Pio XI, la situazione sociale (all’epoca di Leone XIII) era “tristissima” agli occhi di tutti; tuttavia “A tale condizione di cose non trovavano certo difficoltà ad adattarsi coloro che, ben forniti di ricchezze, la ritenevano effetto necessario delle leggi economiche e perciò volevano affidata soltanto alla carità la cura di sovvenire agli indigenti, come se alla carità toccasse l'obbligo di stendere un velo sulla violazione manifesta della giustizia, sebbene tollerata non solo, ma talvolta sancita dai legislatori” [QA, 4]. Nel contempo “molti cattolici, e sacerdoti e laici […] mossi da un sentimento di una carità certamente ammirabile, si sentivano già da lungo tempo sospinti a lenire l'immeritata indigenza dei proletari [e non] riuscivano in alcun modo a persuadersi come un così forte e ingiusto divario nella distribuzione dei beni temporali potesse davvero corrispondere ai disegni del sapientissimo Creatore” [QA, 5]; essi cercavano “con sincerità un pronto rimedio e una salda difesa contro i pericoli peggiori [ma] esitando tra le varie opinioni, non sapevano dove rivolgersi” [QA, 6]. Ed è a questo punto (sempre secondo Pio XI), che entra in azione Leone XIII (direi, in funzione di deus ex-machina) “prudentissimo Pontefice [che] ponderò a lungo tra sé al cospetto di Dio, richiese consiglio ai più esperti, vagliò attentamente gli argomenti che si portavano da una parte e dall'altra, e in ultimo, ascoltando la voce della coscienza dell'ufficio Apostolico, per non sembrare, tacendo, di mancare al proprio dovere, deliberò in virtù del divino magistero, a lui affidato, di rivolgere la parola a tutta la Chiesa, anzi a tutta l'umana società”  [QA, 8]. E così si conclude: “Non neghiamo che alcuni reggitori di popoli, anche prima dell'enciclica di Leone XIII, provvidero ad alcune necessità più urgenti degli operai e repressero le ingiustizie più atroci a loro fatte. Ma è certo che allora finalmente, quando risonò dalla Cattedra di Pietro la parola pontificia per tutto il mondo, i reggitori dei popoli, fatti più consci del proprio dovere, rivolsero i pensieri e l'attenzione loro a promuovere una più intensa politica sociale” [QA, 26]. 

Così la Chiesa, per bocca della suo massimo esponente, si attribuisce i maggiori (se non tutti) meriti delle nuove politiche sociali, o come diremmo oggi, dell’assistenza alle fasce deboli.

Ma in quanto al sovrappiù, alla ricchezza, al capitalismo più sfrenato? Scrive Pio XI: “E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento” [QA, 105]. Poi aggiunge: “E in verità si può ben sostenere, a ragione, esservi certe categorie di beni da riservarsi solo ai pubblici poteri, quando portano seco una tale preponderanza economica, che non si possa lasciare in mano ai privati cittadini senza pericolo del bene comune” [QA, 114]. Infine conclude affermando che non si “proibisce a quelli che attendono alla produzione, l'accrescere nei giusti e debiti modi la loro fortuna; anzi la Chiesa insegna essere giusto che chiunque serve alla comunità e l'arricchisce con l'accrescere i beni della comunità stessa, ne divenga anch'egli più ricco, secondo la sua condizione, purché tutto ciò si cerchi col debito ossequio alla legge di Dio e senza danno dei diritti altrui e se ne faccia un uso conforme all'ordine della fede e della retta ragione” [QA, 136]. 

Queste ultime affermazioni stridono palesemente con molti aspetti del presente: infatti è proprio la Chiesa ad avere oggi una “potenza enorme”; a chiedere allo Stato sempre più cospicue elargizioni di denaro per sostenere la propria sussidiarietà; ad opporsi ad un controllo da parte dei pubblici poteri. Ma anche, almeno in parte, ne sostengono l’interesse di arricchirsi ulteriormente con il profitto d’impresa (oltre che col supporto determinante dello Stato); senza dimenticare l’effetto in termini di ‘immagine’. Con ciò trascurando quella carità esaltata a parole ma, anche secondo molti cattolici, in buona parte banalmente astratta, giacché l’immensa ricchezza di beni materiali suoi e dei suoi ministri non ne viene per nulla scalfita.

 

Abreviazioni:

RN: Leone XIII, Lettera Enciclica ‘Rerum Novarum’, 15 maggio 1891

QA: Pio XI, Lettera Enciclica ‘Quadragesino Anno, sulla restaurazione dell’ordine sociale’, 15 maggio 1931