Digiuno, brufoli e cioccolata

di Francesco D’Alpa  

[L’ATEO, 4/2018]

 

Così esordiva, in un ‘Almanacco’ del primo Novecento, un capitolo sull’impiego alimentare del cacao, che ne magnificava le doti: «Uno dei benefici maggiori che abbia portato all’umanità la scoperta dell’America è la pianta del cacao, fino al secolo XVI assolutamente ignota all’Europa. Se fosse stata conosciuta al tempo di Galeno, di Plinio e di Teofrasto, questi l’avrebbero celebrata per le sue virtù. E i Romani non avrebbero mancato di comprenderla fra gli alberi sacri. Se re Ferdinando di Spagna avesse potuto immaginare quale deliziosa e prodigiosa bevanda si sorbiva in quella parte inesplorata del mondo, certo non avrebbe lesinato per cinque lunghi anni le tre sospirate navi al Colombo.» [1]

A rileggere tali pagine, non può certo passare inosservato a noi moderni, nutella dipendenti, questo passaggio: «Molte e curiose sono le opinioni dei teologi sulla questione di sapere se il cioccolato rompa il digiuno. Il primo a sollevare il dibattito ch’ebbe, et pour cause, lunghissimo seguito, fu padre Tommaso Hurtado. Egli scrisse abilmente che la regola del digiuno è di non mangiare ma di bere, e così mise in pace tutte le coscienze cristiane che per la virtù nutritiva del cacao si mantenevano dubbiose. La logica e salutare conclusione del venerando prelato ebbe i suoi oppositori, ma i più si affrettarono a metterla in pratica.» [2]

Il nostro Almanacco accenna perfino a certi benefici che i morti ricaverebbero dalla cioccolata: «Strenuo difensore del cioccolato fu il cardinale Francesco Maria Brancaccio, che scrisse un’opera all’uopo. L’abate Cancellieri ci narra che monsignor Natale Saliceti soleva dire che il cioccolato giova indirettamente anche alle anime del Purgatorio… Poiché i sacerdoti, per la necessità di rifocillare di buon mattino il loro stomaco languente, e per acquistare nuova lena a proseguire le loro sante incombenze, procurano il più delle volte di sollecitare la celebrazione del Divino Sacrificio, col quale anticipano i loro suffragi alle anime purganti. Del resto è ben noto che i frati, e specialmente i gesuiti, ebbero sempre caro il cioccolato, questi ne furono fino dai primi tempi eccellenti cultori.» [3]

La questione appare oggi risibile, ma in effetti la scoperta delle Americhe ebbe un effetto traumatico sulla catechesi del digiuno quaresimale, che già tanto inquietava i moralisti ed i casuisti. In quanto alla maggior parte degli alimenti e delle bevande, tutto sommato esistevano delle ben consolidate linee guida; ma questo nuovo strano alimento, la cioccolata, scompaginava le categorie, come un essere ermafrodito: liquido o solido, bevanda o alimento, rinfrescante o energetico, curativo o lussurioso?

Se pochi decenni erano bastati a dirimere la questione se gli indigeni del nuovo mondo fossero veri umani ed avessero anch’essi un’anima (rientrando dunque nel piano della redenzione), sul rapporto fra il digiuno e la cioccolata si è dibattuto e polemizzato per un paio di secoli, un poco come ai nostri tempi si è fatto (e si fa ancora) sul rapporto fra brufoli e cioccolato: basta infatti dare un’occhiata su Internet per leggere i pareri più contrastanti, ovvero che secondo alcuni (in decisa minoranza) il cioccolato favorisce i brufoli, secondo altri (in maggioranza) non ha questo effetto, secondo altri ancora è addirittura curativa. Ma tutti sappiamo bene che sotto sotto è una questione legata piuttosto al piacere, al sesso (e per i maschi adolescenti, al tanto esecrato rischio del toccarsi).

Ma torniamo al digiuno. Tradizione vuole che papa Pio V abbia assaggiato nel 1569 questa nuova bevanda, trovandola disgustosa, e decretando (certo anche per questo) che essa non rompe il digiuno. Ma con il raffinarsi delle tecniche di preparazione, il nuovo allettante ‘gusto’ e la conseguente diffusione della bevanda tormentarono i rigoristi.

Nel Seicento si cercò dunque di renderla compatibile con il digiuno liturgico, esorcizzando il peccato di gola. Padre Tommaso Hurtado, dei Chierici Minori, fu uno dei primi a sentenziare che la cioccolata non rompe il digiuno, in quanto nel semplice quantitativo di una o due once vi sarebbe ‘parvita di materia’, e purchè non la si prenda con l’intenzione di nutrirsi, ma piuttosto di medicarsi, e con la buona coscienza di non violare il digiuno.

La questione appariva infatti quanto mai intricata: la cioccolata andava infatti certamente bandita se assunta come alimento allo stato solido, ma i più finirono per ammettere che la si poteva tranquillamente assumere se preparata come semplice bevanda. Il dilemma restava gravoso laddove si prendeva in considerazione la formulazione intermedia, ovvero una buona tazza di densa cioccolata. Qui il teologo doveva arrovellarsi ben bene il cervello per stabilire innanzitutto se in effetti trattavasi di liquido o di solido (due categorie da separare nettamente); in secondo luogo occorreva considerare l’eventuale inzuppamento di biscotti; quindi occorreva prendere posizione in quanto al piacere arrecato ai sensi (aspetto questo da esporre con estrema cautela, possibilmente sottotraccia). Ma c’erano molti motivi (e molte interessate sollecitazioni) per risolvere favorevolmente la questione: i gesuiti, ad esempio, guadagnavano lautamente con il commercio del cacao, ed un poco tutti i preti ne facevano puntualmente uso, anche se dichiaratamente a scopo salutistico.

Fatto sta che la cioccolata ed il cioccolato divennero ben presto il ‘conforto dei religiosi’, la  ‘bevanda dell’anima’, specialmente fra i Gesuiti, che si industriarono ad addolcirne il gusto.

Uno dei più noti documenti di questa lunga e complicata polemica è un testo settecentesco, del controversista Daniele Concina, nel quale troviamo citato un gustoso sonetto che stavolta intende puntualizzare il parere della stessa cioccolata: «Colei son io che per antica essenza / Ebbi già col digiun sì fiere liti: / Che i maggiori Teologi smarriti / Non sanno a chi di noi dar la sentenza. / Studian del pari il gusto e l’astinenza / Nella scuola ambedue de i Gesuiti / E dice l’un, che i liquidi assorbiti / Frangono quando v’è l’incontinenza. / Per sedar l’altra i scrupoli, consiglia, / Che sia rito civil dell’amicizia, / Se si prende talor senza vainiglia. / Questa fra l’innocenza, e la malizia / Dottrina media accorda a maraviglia / Il digiuno, la gola, e l’avarizia.» [4]

Beata ipocrisia, possiamo ben dirlo; ma il popolo escluso da tali delizie commentava a denti stretti: “loro se la suonano e loro se la cantano”; e Giuseppe Gioachino Belli puntualmente ironizzava:
LA PORTERIA DER CONVENTO (30 dicembre 1832) Dico: "Se pò pparlà ccor padr'Ilario?" / Disce: "Per oggi no, pperché cconfessa." / "E ddoppo confessato?" - "Ha da dì mmessa."  / "E ddoppo detto messa?" - "Cià er breviario." / Dico: "Fate er servizzio, fra Mmaccario, / d'avvisallo ch'è ccosa ch'interressa." / Disce: "Ah, cqualunque cosa oggi è ll'istessa, / perché nnun pò llassà er confessionario."  / "Pascenza," dico: "j'avevo portata, / pe cquell'affare che vv'avevo detto, / ste poche libbre cqui de scioccolata..." / Disce: "Aspettate, fijjo bbenedetto, / pe vvia che, cquanno è ppropio una chiamata / de premura, lui viè: mmó cciarifretto."

[a] Almanacco Italiano. Piccola enciclopedia popolare della vita pratica. Anno X, Bemporad, Firenze, 1905. p. 489.

[b] idem, p. 492.

[c] idem, p. 492.

[d] Daniele Concina: Memorie storiche sopra l’uso della Cioccolata in tempo di Digiuno. Simone Occhi, Venezia, 1748, p. XXVII.