Editoriale

di Francesco D'Alpa

Pubblicato su L'ATEO, numero 3/2015

Ci siamo riusciti!

Eccoci dunque arrivati al fatidico numero 100. Si tratta ovviamente solo di un passaggio simbolico, giacché poi in sostanza nulla cambia, come nulla è cambiato al mondo (a dispetto dei tanti millenarismi) dopo il passaggio di millennio.

Ma i simbolismi servono, quanto meno a sottolineare qualcosa; e quel qualcosa è un impegno  a curare questa rivista, che dura dal 1996 (sicché il prossimo anno sottolineeremo stavolta il ‘ventennale’ dell’ATEO).

La sorte vuole che tocchi a me scrivere l’editoriale di questo numero, e debbo confessare di esserne fortemente imbarazzato, perché mi sembra di non meritare da solo questo onore. Lo dico in riferimento a chi ha avviato l’impresa editoriale;  a chi l’ha supportata, per maggiore o minore tempo, con maggiore o minore costanza, con maggiore o minore forza; a chi è stato collaboratore, amico, alleato; e, dal profondo del cuore, a chi non c’è più e del quale sentiamo la mancanza.

Ci siamo ovviamente chiesti in redazione quale fosse la scelta migliore per confezionare questo numero: un poco di cronistoria? articoli commemorativi? rulli di tamburi ed effetti speciali? Le idee non sono certo mancate, ma alla fine v’è stata convergenza su di una scelta radicalmente opposta: fare un numero ‘come sempre’. Certamente un numero ‘grosso’ (cioè a 48 pagine), ma stavolta non tematico, in contrasto con quanto ci si aspetterebbe da un ‘normale’ terzo numero dell’anno.

Ho detto del mio imbarazzo. Qui ora aggiungo che, rinunciando al taglio celebrativo, mi sento quasi in obbligo di adottarne uno semplicemente discorsivo, vagamente filosofico. E dunque, in questo momento in cui scrivo, con appena alle spalle la tragedia di Charlie Hebdo e tutte le cose ben dette o mal dette immediatamente dopo, consentitemi qualche licenza.

La prima è l’eco di una suggestione adolescenziale, legata alla conoscenza di una famosa espressione di Blaise Pascal: quel paragonare l’uomo ad una canna al vento, piegata dagli eventi ma irrimediabilmente ed orgogliosamente pensante. Una immagine in qualche modo riflessa nel coraggio con cui gli autori di Charlie Hebdo hanno ripreso la loro lotta per la libertà di espressione e contro ogni forma di intolleranza.

La seconda è un appello, non del tutto scontato, alla tutela delle diversità e delle minoranze. In varie occasioni abbiamo commentato in passato le contraddizioni di parte cattolica legate a questo tema, a partire da una esperienza che (ben prima degli Ateobus) ci ha riguardato direttamente: quando gli allora pochi soci UAAR si radunarono in congresso a Trento (si era nel 1998, ed i convenuti non superavano le due centinaia) furono definiti derisoriamente da un saccente giornalista dell’Avvenire “panda in estinzione”; anni dopo, con atteggiamento ed intento palesemente opposto, un’altra penna dello stesso giornale paventava invece l’estinzione dei “panda cristiani” oramai sparuta minoranza in alcuni paesi islamici. Peggio per loro, potremmo sottolineare, ricambiando la cattiveria; ma, per quel che ci interessa maggiormente, meglio oggi per noi dell’UAAR; tutt’altro che dei semplici ‘ateo panda’ sopravvissuti, e che miriamo a presentarci come parte non solo rispettabile ma significativa e propositiva della società: cosa di cui la vitalità di questa rivista  vuole essere testimone.

Una ulteriore suggestione mi viene dalla rilettura in questi giorni di un fortunato testo del napoletano Antonio Genovesi (1713-1769), le “Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli ignoranti che gli scienziati”, del 1764. In esso Genovesi si interroga, assumendo la doppia veste di un abate e di un canonico in contraddittorio, su cosa debba intendersi per felicità e su come ottenerla. In prima approssimazione, egli scrive, la felicità non ha precisa relazione con condizioni di per sé assolutamente contrapposte: ricchezza o povertà; salute o malattia; vita di città o di campagna; compagnia o solitudine; e via discorrendo. In realtà, tale è la conclusione, un uomo è felice (o perlomeno non tanto infelice o misero) se è in grado di prevenire o temperare o superare i mali naturali e sociali grazie alla cultura ed alla scienza.

Ma cosa c’entra, direte voi, questa aspirazione alla felicità con L’ATEO? Poco e  molto. Personalmente colgo in quello scritto preziose metafore sul nostro lavoro e sulle nostre tesi. Da una parte: non esistono mondi ideali e perfetti; non esistono leggi morali universali; il bello ed il brutto stanno spesso solo nei nostri personalissimi sentimenti ed emozioni; la felicità consiste essenzialmente in una personale autorealizzazione e non piuttosto nel raggiungimento di un traguardo prefissato, in questa o in quell’altra vita, stabilito da altri, ed uguale per tutti. Dall’altra, la soluzione al problema non può che venire da un buon uso dei ‘lumi’: autonomia di pensiero, libertà di espressione, tolleranza, ed ovviamente riflessione, razionalità, e quant’altro…

Tornando a noi, la lista delle virtù laiche è lunga, ma crediamo che in tutti questi anni L’ATEO ne abbia reso ampia testimonianza, senza derogare dal suo compito di fedele strumento documentale e propositivo dell’UAAR.

Giusto a riprova di ciò ci piace dunque  ripubblicare, anche ad onore del suo autore, fondatore dell’ATEO, il ‘nostro’ primo editoriale, di quel ‘piccolo’ numero zero.

Rispetto ad allora, questo numero 100 non è un punto d’arrivo, né un passaggio, né segnerà una svolta, ma solo un passo avanti: ad maiora!