Morti sospese: capovolgiamo i termini del problema

Nel corso del Novecento la teologia e la catechesi si sono occupate estensivamente di vita biologica e di medicina, soprattutto in ordine alle funzioni riproduttive e alla sessualità. Per quanto le singole questioni siano state valutate alla luce della tradizione e del magistero, si è resa progressivamente sempre più evidente una decisa messa in ombra del soprannaturale (specie fra i teologi ‘modernisti’); al punto che oggi è pressoché assente in teologia morale qualunque teoria che esplicitamente ammetta il soprannaturale all’interno di fenomeni biologici e di condizioni mediche, e che in funzione di essa solleciti una conseguente scelta operativa.
Un aspetto interessante della questione è il passaggio dalla concezione tradizionale, che poneva Dio al centro del pensiero e delle aspettative dell’uomo, ad un nuovo antropocentrismo cristiano che, pur senza ovviamente escludere Dio, guarda prevalentemente all’orizzonte mondano. Questo processo segue la trasformazione della medicina moderna ed è divenuto più deciso nel momento in cui quest’ultima ha cominciato ad incidere significativamente su specifici domini (la nascita e la morte) che la teologia riteneva preclusi ad ogni tecnica umana.
Il caso di Eluana Englaro ha dato il via e sostenuto, a più riprese (scandite dalle decisioni dei vari organi giudicanti) al primo grande dibattito mediatico in Italia sulla sorte dei soggetti che si trovano in quella particolare condizione di ‘morte sospesa’ che viene definita ‘Stato Vegetativo Persistente’.
Da una parte si sono schierati compatti le gerarchie vaticane ed i credenti laici, per i quali va condannata qualunque forma di eutanasia, anche se omissiva; dall’altra la maggior parte del mondo scientifico ‘laico’ o meglio ‘non confessionale’.
Nell’orizzonte teologico, il problema è abbastanza recente. Prima dei ‘miracoli’ della tecnica rianimatoria, infatti, il clero si limitava ad accompagnare il fedele alla buona morte; lo istruiva sull’inevitabilità dell’evento e lo sollecitava a preoccuparsi soprattutto del destino della propria ‘anima’, il più grave dei compiti. Ora invece i preti sembrano maggiormente preoccupati della vita terrena. Così, paradossalmente, si invertono le parti fra etica religiosa e ‘tecnicismo scientista’.
Gli spiritualisti rimproverano alla medicina, con enfasi crescente, di ridurre l’uomo ed il suo corpo ad una somma di parti da osservare e curare; ma senza guardare all’insieme della persona, costituita dall’unione delle parti più un ‘qualcosa’ che sta oltre il piano fisico. Così, negli stati vegetativi persistenti, mentre la medicina proclama la morte della persona proprio in quanto di essa funzionano solo alcune parti ma non l’insieme mente-cervello, i clericali credono alla persistenza della persona in virtù di quell’altro che non è il corpo; e basandosi su questa convinzione intervengono nel dibattito scientifico nel ruolo di censori e portatori di una ‘riserva etica’.
Prima della medicina moderna si sosteneva che, cessata la funzione cardio-respiratoria, l’anima si separa dal corpo. Questa idea trovava rispondenza in tutte le trattazioni teologiche sull’anima, secondo le quali le funzioni di questa non sono riducibili ad attività del corpo (o meglio del cervello).
Ma soprattutto, dal punto di vista metafisico-religioso, ed in particolare nella prospettiva cattolica, non esiste mai alcuna vera fine dell’individualità. Quella che comunemente si definisce morte sarebbe infatti solo l’aspetto apparente di un evento più complesso, ovvero la separazione dell’anima dal corpo, con l’Io-anima che persisterebbe in una dimensione ed in una prospettiva non coglibile empiricamente.
Lo scontro polemico (fortemente ideologico da parte della chiesa) sulle problematiche di fine vita e sulla stessa definizione di ‘fine vita’, esplode ricorrentemente sui media, giacché il punto di vista scientifico e quello religioso appaiono assolutamente inconciliabili.
Ogni censura clericale alla scienza si basa su presunte contraddizioni ed incompletezze di questa; ma come cambia il quadro se è la scienza ad invadere il campo della religione? Se è vero che solo la teologia è in grado di precisare il senso ultimodelle cose, perché non affrontare tutta la questione ponendo in posizione prioritaria la teologia; ovvero, piuttosto che chiederci se la medicalizzazione della morte si accorda con le esigenze superiori della bioetica, perché non chiederci se la teologia consolidata può ancora accordarsi alle certezze (ritenute con arroganza ‘di livello inferiore’) della medicina?

Francesco D’Alpa

Pubblicato su www.uaar.it (28 novembre 2008)