Il “Quinto Comandamento” nei corsi di religione

 

Nei manuali per il popolo di fine Ottocento e primo Novecento, nell’illustrare il quinto comandamento, viene per lo più usata la formula «non uccidere» o anche «non fare omicidio»,[1] quest’ultima decisamente più aderente alla formulazione teologica del ‘divieto di uccidere l'innocente’. L'uccisione dell'ingiusto aggressore, del nemico in guerra o del criminale per decisione dell'autorità civile non appartengono infatti, nella coscienza cattolica del tempo, alla categoria specifica dell'omicidio ma a quella più generica dell'uccisione.

Questo genere di pubblicazioni ha ovviamente un respiro espositivo ed argomentativo abbastanza limitato. Se dunque intendiamo cogliere in pieno la ‘vulgata’ della dottrina cattolica sulla pena di morte, dobbiamo rivolgerci ad altre opere di divulgazione, ad esempio quelle ad uso delle scuole.

La produzione di corsi di religione, per le scuole o per particolari gruppi sociali, è sterminata; se ne trovano di tutte le dimensioni e per tutte le esigenze. Essi semplificano al massimo i concetti fondamentali della teologia; e viene loro delegato il compito di istruire quanto basta il popolo, normando la vita sociale sui principi ‘assoluti’ del Cristianesimo.

Limitatamente all’ambito italiano, la loro lettura è importante, in quanto ci fornisce una precisa idea di quale sia stata nei diversi momenti storici la posizione della Chiesa nei confronti della pena di morte, in contesti legislativi con atteggiamento assolutamente discordante, nei diversi periodi, nei confronti della pena di morte.

Lungo quest’arco di tempo, la posizione della Chiesa è stata abbastanza indipendente dal contesto giuridico, e la sua posizione ben poco influenzata dalla coscienza civile e dal senso comune. Vediamone una breve cernita.

Partiamo da "I doveri cristiani esposti alla studiosa gioventù italiana" (1900), di Monsignor Enrico Giovannini, Arciprete di Bologna, una classica opera di inizio secolo, fortemente impegnata nella difesa del ‘vecchio’ mondo della religione, di fronte al ‘nuovo’ mondo delle scienze naturali e sociali. La posizione nei confronti della pena di morte è netta, quanto tradizionale:

«La legittima e pubblica autorità, quando la difesa dei diritti e del buon ordine sociale lo esiga, può ordinare la guerra, e la posizione dei malfattori colla morte […] L'uccisione di un uomo è un delitto, quando si faccia per mero arbitrio, e con l'animo perverso di offendere il prossimo. Ma […] nei casi ove la pubblica autorità operi a sostegno e a tutela dell'ordine sociale, convien intendere ch'ella opera in nome del padrone della vita, che è Dio, il quale vuole mantenuta la giustizia nella società».[2]

È importante notare come in questo ponderoso testo non si faccia alcun accenno (contrariamente a ciò che invece avviene per altri importanti temi di attualità: materialismo, dottrine sociali del libero pensiero, darvinismo, etc..) alle prese di posizione contrarie, di quanti vorrebbero piuttosto abolire l'istituto giuridico della pena di morte.

"La dottrina cristiana insegnata intuitivamente" (1917) del parroco Andrea Bairati si sofferma con esempi edificanti, tratti dalla storia sacra e dalla tradizione cristiana, sul rispetto del prossimo e sulla necessità di riparare agli scandali e del quinto comandamento riporta solo le formule del Catechismo di Pio X. Nessun accenno alla pena di morte.

"Il valore della vita" (1921) è un classico testo di religione per le scuole superiori. In esso, con il comandamento «non ammazzare» si intendono proibiti l'omicidio, il suicidio, i ferimenti, le percosse, le ingiurie, le imprecazioni e lo scandalo; impedire al bambino di nascere è peccato perché egli

«ha diritto alla vita […] impedirgli di nascere lo priverebbe anche del Santo Battesimo e della vita eterna».[3]

L'omicidio è peccato gravissimo perché

«l'uccisore usurpa a Dio il diritto che egli solo ha sulla vita degli uomini; priva per sempre il prossimo del massimo dei beni naturali; ben sovente non gli dà neppure il tempo di pensare all'anima sua […]: ben sovente, compromette l'avvenire dei figli».[4]

In quanto alla pena di morte, invece

«la società ha diritto di fare leggi di pena di morte per certi delitti gravissimi; e quindi la pubblica autorità potrà legittimamente uccidere chi le ha volontariamente violate».[5]

Un "Breve trattato di religione" (1928), per i circoli piemontesi della Gioventù Cattolica Italiana presenta l'omicidio come gravissimo delitto:

«1) perché è un attentare al dominio sovrano di Dio che è il solo padrone della vita degli uomini; 2) perché chi uccide assale Dio stesso, distruggendo nell'uomo l'immagine di Lui; 3) perché toglie all'uomo il bene più caro e più prezioso ch'egli abbia al mondo»;[6]

e giustifica l'omicidio nei tre soliti casi: guerra giusta, aggressione ingiusta e

«per eseguire le sentenze dell'umana giustizia; perché la società ha il diritto di colpire con la pena di morte quei membri che pregiudicano la sua sicurezza e quiete».[7]

Come è d’uso frequente nella catechesi del tempo, vengono riportati esempi ‘edificanti’, come questo:

«La pena capitale contro gli omicidi e gli assassini non è una vendetta, ma una necessità sociale […] Un re, richiesto della grazia per un assassino reo di due omicidi, era incerto se doveva concederla. Ma il suo giullare (buffone di corte) gli disse: “Maestà, questo assassino non ha ammazzato due uomini, ma uno solo; l'altro l'avete ammazzato voi”. - “Come? (rispose il re, sbarrando gli occhi)” - “Sicuro: se Vostra Maestà non avesse graziato questo omicida la prima volta, ma lo avesse lasciato giustiziare come meritava, il secondo uomo non sarebbe stato ammazzato”».[8]

"La morale cristiana" (1930) del padre Giovanni Re, manuale per le scuole medie superiori, tratta di suicidio, omicidio (con accenno all'eutanasia) e duello. In quanto all'omicidio dell'innocente afferma che esso offende l'innocente, la società e la famiglia dell'ucciso. Non parla, in questi casi, di offesa diretta verso Dio. In quanto alla pena di morte, la accetta ed anzi afferma esplicitamente che la Chiesa ha sempre riconosciuto allo Stato questo diritto, purché sia provato in giudizio in modo certo un grave delitto. Sostiene inoltre che

«La pena di morte è in certi casi l'unica pena proporzionata alla gravità del delitto, e l'unico mezzo per la società di riparare l'ordine violato, di difendersi da certi delinquenti, che sono contrari al bene della società stessa, di mantenere l'ordine e di atterrire esemplarmente gli altri, perchè non siano indotti a consumare simili delitti. Così la ragione ci persuade di quello che il fatto storico di tutti i tempi e di tutte le nazioni ci mostra; e il fatto storico è un argomento sicuro, chè non si può accusare di ingiustizia tutto il genere umano. È vero che la pena di morte non emenda il reo, ma la pena alcune volte può essere solamente riparatrice e vendicativa. Per di più è esemplare, allontanando gli altri dal male. E poi non è forse vero che il più delle volte il condannato a morte si umilia e si pente? E questa è verissima emendazione, che salva l'anima sua».[9]

In "I dieci comandamenti" (1945) del vescovo Toth Tihamer, la pena di morte viene ampiamente accettata sul piano sociale e giustificata dal punto di vista dottrinario:

«Di fronte alla perversità e alla profonda cattiveria di certi uomini, e per dare un salutare esempio, il potere politico e giudiziario punisce certi delitti con la pena di morte; la Chiesa cattolica non protesta contro questa misura sociale che stabilisce la pena di morte».

Il comandamento «non uccidere», ci spiega l'autore, sembra andare formalmente contro la norma evangelica; ma quest'ultima prescrive di «non uccidere l'innocente» e quindi solo uccidendo gli assassini si possono salvare gli innocenti. Dio stesso confermerebbe questa interpretazione; infatti proprio Dio (‘Signore della vita e della morte’) dichiarò a Mosè che certi peccati (Deuteronomio 21, 22) sono da punire con la pena di morte. Le argomentazioni del teologo poggiano saldamente anche su Paolo di Tarso (Romani, 13, 3 segg.). Dopo avere precisato che solo in casi estremi lo Stato deve fare ricorso alla pena di morte, viene ripreso il classico argomento della necessaria amputazione del membro malato. Ciò premesso, cavalcando una ambiguità che mai difetta nel Cristianesimo più recente, Tihamer, seppure ricorda che

«l'ideale cristiano è, che la vita sociale sia tale da non dover mai ricorrere a tale mezzo estremo»,

purtuttavia afferma:

«la Chiesa riconosce che la pena di morte è l'ultimo mezzo che la società ha per tutelare la propria difesa, che sarebbe preferibile di non dover mai usare questo mezzo estremo, ma disgraziatamente ciò è impossibile. Se si conserva la pena di morte, è per impedire agli uomini in generale di attentare, sotto il minimo pretesto, alla vita degli innocenti. Si è constatato che negli Stati che hanno soppresso la pena di morte è aumentato il numero degli assassini […] È evidente che il giorno in cui non vi saranno più assassini sarà inutile il carnefice».[10]

È interessante riflettere su quanto lo stesso autore scrive poco dopo circa l'eutanasia su persone malate. Non solo gli ripugna che qualcuno possa decidere sulla vita di altri, ma avanza il sospetto che questa ‘dolce morte’ imposta a non consenzienti possa nascondere sordidi interessi (ad esempio accedere ad una eredità).[11]

"La legge" (1947), corso di religione per la scuola media, pone l'accento soprattutto sullo scandalo, sul dovere di curare la propria salute e sulla necessità di amare gli altri. Vengono riportati gli articoli del catechismo di Pio X. Non viene fatto alcun accenno ad alcuna forma di uccisione ‘giusta’ (per guerra, legittima difesa, pena di morte).

"Scienza vera" (1952, ristampato nel 1961) per le scuole medie, richiama i motivi per i quali non possiamo disporre della nostra vita, che abbiamo solo in custodia:

«è Dio il vero padrone. Infatti: a) non siano noi che ci diamo la vita; - b) essa ci viene tolta, senza chiederci il permesso; anche se noi ci ribelliamo; -c) non sappiamo neppure come sarà la nostra vita».[12]

In questo testo la trattazione del suicidio viene anteposta a quella dell'omicidio, che è peccato gravissimo per le abituali motivazioni: viola i diritti di Dio, ed è ingiustizia verso l'ucciso, la sua famiglia e la società. L'uccisione è lecita solo per legittima difesa, guerra lecita e delitto pubblico:

«ma questo potere lo ha solo lo stato, il quale, avendo l'autorità da Dio, ne ha anche i poteri connessi».[13]

In "Il regno di Dio" (1956), manuale per i corsi di abilitazione all'insegnamento della religione nelle classi elementari, si sostiene che il quinto comandamento proibisce

«anzitutto l'omicidio, poi i ferimenti, le mutilazioni, le ingiurie, le imprecazioni, l'ira, la collera, l'odio, l'invidia, la vendetta e qualunque danno arrecato senza proporzionale e giusta ragione alla via degli altri».[14]

Circa la pena di morte si spiega che:

«L'autorità pubblica può decretare l'uccisione del malfattore, perché essa ha il dovere di tutelare il benessere comune, e quindi di eliminare colui che nuoce al benessere comune, anche con la morte, quando gli altri mezzi risultassero insufficienti. È necessario però che il delitto del malfattore risulti da un processo pubblico: quindi non è lecito al principe decretare la morte del malfattore solo per cognizione privata, e non è lecita la proscrizione (licenza data a chiunque di uccidere determinati malfattori o persone ritenute come tali). Una volta decretata la morte del malfattore per sentenza pubblica, l'autorità deve dare al condannato il tempo di pentirsi e ricevere i Sacramenti. Gli esecutori della condanna creduta giusta non peccano».[15]

Circa l'aborto si afferma:

«Come non è lecito uccidere chi è nato, così non è lecito sopprimere la vita che ancora si trova nel seno materno (aborto)».[16]

"Incontro a Cristo" (1957), per le scuole medie, si sofferma maggiormente sulla parte positiva del quinto Comandamento, ovvero la sua rilettura evangelica con il comando di amare la vita e gli altri:

«Gesù Cristo nella legge evangelica ha molto perfezionato il comandamento contenuto nel decalogo. La legge antica, infatti, permetteva l'odio del nemico e la vendetta ammessa come una forma di fare giustizia […] Questo comando di amore alla vita è necessario per risparmiare vite umane e per mantenere l'ordine sociale».[17]

Non accenna invece ad aborto ed eutanasia; e non parla di pena di morte, né di altre cause di uccisione ‘giusta’. Si tratta indubbiamente di un testo di transizione fra posizioni tradizionali e orientamenti che si imporranno successivamente; lo si nota bene allorchè si consideri come il ‘mantenimento dell'ordine sociale’ venga fatto dipendere  dall'amore alla vita piuttosto che dal mantenimento dell’autorità ai fini del ‘bene comune’.

In "Luce divina" (1958), corso di religione per le scuole medie inferiori l'omicidio viene definito

«un grave peccato perché infrange i diritti di Dio sulla vita umana […] un'irreparabile ingiustizia contro la vittima, la famiglia e la società»;[18]

mentre vengono omesse le solite considerazioni sul destino ultraterreno del condannato, sulla confessione riparatrice, e simili. Togliere la vita al prossimo è comunque pienamente ammesso nel caso di ingiusta aggressione, guerra giusta e

«quando lo stato, secondo le proprie leggi, ha stabilito per certe colpe gravissime la pena di morte».[19]

"La dottrina cattolica" (1961), manuale di istruzione religiosa del sacerdote A. Boulanger, fa precedere la trattazione del suicidio a quella dell'omicidio. Definisce omicidio l'uccisione di un uomo, ed in particolare infanticidio quella di un neonato, ma non accenna all'uccisione di bambini non nati. La gravità dell'omicidio viene vista sotto i tre aspetti del delitto contro i nostri simili, contro la società e contro Dio (elencati in quest'ordine). Riguardo all'omicidio lecito vengono riportati i tre casi della legittima difesa, ‘vendetta pubblica’ e guerra giusta.

«La vendetta pubblica è il diritto che ogni società può esercitare contro i delinquenti. È certo che la società non può assicurare l'ordine se è disarmata; ma può arrivare alla pena di morte? Certi filosofi umanitari, trascinati da una sensibilità morbosa, contestano tale diritto e portano due ragioni principali. Essi dicono: a) che si commettono errori giudiziari, e b) che ogni pena dev'essere medicinale, cioè deve mirare alla correzione del colpevole. Ora la pena di morte sopprime la possibilità di questo comandamento, perciò non raggiunge lo scopo che deve avere questo castigo. Queste ragioni non sono prive di valore, ma si può rispondere agli avversari della pena di morte: 1) che non è il caso di tener conto degli errori giudiziari i quali sono l'infima eccezione; 2) che l'emendamento dei colpevoli sia un fine più che legittimo, non ne dubita nessuno; ma spesso accade che castigare il corpo è il mezzo migliore per guarire l'anima: la morte è buona consigliera, e la vista del patibolo convertì molti delinquenti che, condannati a una pena minore, sarebbero restati impenitenti. E poi l'emendamento individuale è solo un fine secondario: il fine principale a cui mira la società con la condanna a morte, è il bene comune, il mantenimento dell'ordine. Se essa dunque rappresenta gli interessi di tutti i suoi membri, tocca a lei vendicare coloro che sono ingiustamente colpiti ed infliggere ai colpevoli pene proporzionate ai delitti. E non ha soltanto il diritto di reprimere, ma ha pure il dovere di prevenire il male con l'esempio di un castigo che può ispirare un salutare timore e fermare il malfattore che sta per commettere il delitto».[20]

All'interno della tematica del quinto Comandamento, l'autore di questo testo risponde all'obiezione avanzata alla Chiesa circa il fatto che essa un tempo accettava pratiche come i cosiddetti ‘giudizi di Dio’ (i due contendenti in una lite venivano sottoposti ad una prova, ad esempio quella del fuoco o dell'acqua bollente, e si riteneva che Dio sarebbe intervenuto con un miracolo per salvare il giusto), o il duello giudiziario. Secondo Boulanger, tutte queste prove appartenevano alla tradizione pagana, e furono accolte entro un falso concetto di “Provvidenza”, ma non furono mai approvate pienamente e

«al più si potrà dire che la Chiesa lasciò fare, perché non poteva sopprimere tutti gli abusi che incontrava in nazioni ancora semibarbare».[21]

"Va e insegna" (1962), manuale per i Corsi di Abilitazione dei Catechisti, di ispirazione salesiana,  presenta l'impostazione tradizionale; il comandamento

«non ammazzare proibisce tutto ciò che danneggia sia la vita fisica che la vita spirituale del prossimo»:

omicidio, suicidio, duello, offese, ferite, percosse, vendette, odio, invidia, scandalo. L'omicidio consiste nel

«togliere la vita -liberamente, volontariamente ed ingiustamente- al prossimo […] non è omicida il soldato che in guerra spara suoi nemici; l'esecutore della sentenza capitale; un pazzo od un sonnambulo».[22]

L'omicidio viene descritto come: delitto grave contro il prossimo, perché gli toglie il bene maggiore che possiede, cioè la vita; delitto contro la società; ingiuria gravissima contro Dio; delitto con

«l'aggravante del reale pericolo di dannazione eterna dell'ucciso, che viene forse privato della possibilità di una preparazione a ben morire».

L'autore non parla in alcun modo dell'aborto, mentre si dilunga sull'eutanasia, che condanna come vero omicidio, per ragioni che è utile riportare per intero:

«non sempre il verdetto dei medici è infallibile […]; né il malato, né la società hanno il diritto di disporre della vita, la quale è di Dio; il consenso del malato è sempre dovuto ad una situazione anormale […]; la vita è sempre un grande bene, anche se vi è la sofferenza […]; i medici e le medicine hanno la missione di curare e non di uccidere; oggi la medicina è in grado, con mezzi leciti, di lenire i dolori e di renderli sopportabili».[23]

In "Faville Divine" (1964), corso di religione per la Scuola Media, approvato dalla “S. Congregazione del Concilio”, il quinto comandamento «non ammazzare» è inteso secondo la concezione tradizionale, che comprende il divieto di attentati sia alla vita fisica che a quella soprannaturale e contestualmente l'obbligo a provvedere sia a l'una che agli altri. Nella categoria dell'omicidio vengono compresi tutti i casi di uccisione di un altro uomo, perfino per «inosservanza del codice stradale»; non si fa invece alcun cenno ad aborto ed eutanasia. Viene spiegato che l'omicidio va contro Dio, contro il prossimo e contro la famiglia altrui. Si afferma la legittimità dell'uccisione per legittima difesa e in guerra. Della pena di morte si sostiene, senza la minima esitazione:

«È lecito al boia o al plotone di esecuzione uccidere un uomo, condannato a morte dalla legittima autorità».[24]

In "La meravigliosa storia della salvezza" (1965), corso di religione per la scuola media, approvato dalla Curia di Brescia, l'insegnamento dei comandamenti punta sul significato di «messaggio di bene sociale», e di «amore verso il prossimo», anziché sull'originale carattere normativo-repressivo dei comandamenti. Il quinto Comandamento

«ci invita specificatamente: ad aver cura della nostra vita naturale e di quella del prossimo; ad aver cura della nostra vita soprannaturale e di quella del prossimo».[25]

Fra i tipi di omicidio vengono inclusi anche l'aborto, l'eutanasia e gli sport violenti. La pena di morte è ancora considerata legittima (come l'uccisione per legittima difesa e quella in guerra)

«per l'autorità pubblica in vista del bene comune»

ma viene precisato

«è da augurarsi però che la pena di morte sia abolita definitivamente in quei paesi dove ancora sussiste».[26]

A fine capitolo viene citato un intervento di Pio XII:

«Un dovere del resto obbliga tutti, un dovere che non tollera nessun ritardo, alcuna esitazione, alcuna tergiversazione: di fare cioè tutto quanto è possibile per proscrivere e bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali, come strumento di aspirazioni nazionali».[27]

Il contrasto fra il «fare tutto quanto è possibile», nel caso della guerra, ed il semplice «augurarsi che», nel caso della pena di morte, è stridente; e va purtroppo interpretato, nonostante tutto, con il fatto che ancora alla coscienza teologica cattolica la pena di morte ripugna assai meno che alla coscienza comune e, concettualmente, interessa in fondo assai meno in confronto al problema della legittimità della guerra. I tempi evidentemente cambiano, ma non spingono tanto da reclamare una revisione dottrinale.

In "Progetto uomo" (1993), per la scuola media, testo approvato dalla Curia di Torino, si parla di peccati contro la vita in modo ancora più ampio: guerra, fame, genocidio, inquinamento ambientale, lavori pericolosi, sport pericolosi, alcolismo, droga, eutanasia, aborto, terrorismo, omicidi, suicidio, ecc.

Aborto ed eutanasia divengono temi di primo piano e ad essi è dedicata grande attenzione; viene anche giustamente sottolineato come spesso lasciare morire sia moralmente equivalente per il cristiano ad un omicidio (ad esempio nel caso della morte per fame nel terzo mondo). A proposito della pena di morte, non viene più toccato il punto se sia o meno legittima per lo stato, né si accenna alla posizione tradizionale della Chiesa. Ci si chiede piuttosto quale sia la pena giusta per l'omicidio. Il problema viene di fatto spostato sul piano della morale comune:

«Qual è la punizione giusta per chi ha commesso un omicidio? Chi ha ucciso un uomo deve a sua volta essere ucciso? Così è stato presso tanti popoli, fino ad un tempo non molto lontano da noi. Specialmente dopo la seconda guerra mondiale, molti Stati (tra i quali l'Italia), hanno abolito la pena di morte […] Questa abolizione è in genere motivata dalla volontà di superare la componente di “barbarie” che caratterizza la pena di morte, dal pericolo di colpire degli innocenti e dalla convinzione che sia possibile “recuperare” in certa misura qualunque uomo, anche il più malvagio. Per i cristiani l'abolizione della pena di morte è in perfetta sintonia con lo spirito del Vangelo; così pure essi sono sollecitati dallo stesso Vangelo a credere nella recuperabilità dei colpevoli e devono impegnarsi perchè possa concretamente realizzarsi".[28]

Questa esposizione appare mistificatoria. Molte cose potrebbero essere state omesse per brevità, ma non è inutile sottolineare che l'abolizione della pena di morte è stata attuata in molti stati ben prima della fine della seconda guerra mondiale, che nell'Italia unitaria essa era già stata abolita (salvo che nel codice penale militare) contro il giudizio della chiesa e dei moralisti cattolici, mentre era stata ripristinata dallo stato fascista proprio con il plauso della Chiesa. È doveroso anche rimarcare che i cristiani hanno per secoli sottolineato la sintonia della pena di morte con la “Bibbia” piuttosto che quella della sua abolizione con i “Vangeli”. Ma vorrei particolarmente sottolineare un’affermazione riguardo l'aborto:

«Per i cristiani, il fatto che lo Stato non persegua penalmente chi pratica l'aborto, non toglie niente allo stretto dovere di coscienza di preservare la vita innocente e indifesa del bambino nel grembo materno. Essi, che sono contro ogni violenza, non possono non condannare in modo assoluto la violenza dell'aborto».[29]

Perché allora i cristiani non hanno mai sentito un simile ‘obbligo di coscienza’ nei riguardi dei condannati a morte, neppure per quelli di dubbia colpevolezza?

«Anche la morale cristiana non accusa di peccato grave e non condanna chi ha ucciso per “legittima difesa”, purchè non l'abbia fatto per odio o per vendetta. In ogni caso non è azione che venga incoraggiata e l'ideale resta sempre la non violenza insegnata  e praticata da Gesù».[30]

Anche qui notiamo una totale reticenza sul fatto che una volta si sosteneva e sostanzialmente si elevava a principio lo spirito di vendetta da parte dello stato, che, a differenza del comune cittadino, ben difficilmente potrebbe comunque perseguire la ‘non violenza’.

Conclusivamente, in nessuno di questi testi la pena di morte viene dichiarata contraria al diritto naturale o a quello positivo (sia esso divino o umano); ed in nessuno viene ipotizzata una sua delegittimazione rispetto all'epoca mosaica. Volerne restringere l'applicazione ad un numero di situazioni quanto più possibile limitato, non equivale certo a deprecarla.

È importante infine sottolineare come la progressiva sparizione o minimizzazione della tematica della pena di morte sia parallela ad un ampio espandersi delle problematiche dell'aborto e dell’eutanasia. Ma il principio del rispetto della vita appare palesemente valutato secondo metri diversi, nel caso si tratti della pena di morte rispetto ad aborto ed eutanasia.

Così, argomentazioni un tempo addotte a sostegno o contro la legittimità della pena di morte oggi vengono riproposte, con valore e significato assolutamente opposto, nel trattare di aborto ed eutanasia.

 

[1] Ad esempio in: Riva G., 1897, p. 12.

[2] Giovannini E., 1900, p. 311.

[3] Maccono F, 1921, pp. 94-95.

[4] Maccono F, 1921, p. 95.

[5] Maccono F, 1921, pp. 96-97.

[6] Mortarino G., 1928, p. 113.

[7] Mortarino G., 1928, p. 113.

[8] Mortarino G., 1928, p. 116.

[9] Re Giovanni, 1930, p. 100.

[10] Tihamer T., 1945, pp. 24-25.

[11] Come non paragonare questo comportamento a quello dei confessori che sembravano quasi non turbarsi di fronte alla prospettiva di una esecuzione capitale giuridicamente legittima, ma assolutamente ingiusta rispetto ai fatti accaduti!

[12] Locatelli L., 1961, p. 51.

[13] Locatelli L., 1961, p. 53.

[14] Mons. Parisella, Eusebietti D., Maroni B.M., 1956, p. 185.

[15] Parisella, Eusebietti D., Maroni B.M., 1956, p. 186.

[16] Parisella, Eusebietti D., Maroni B.M., 1956, p. 187.

[17] Nosengo G.. 1957, p. 111.

[18] Salvestrini F., Muraro I., 1958, p. 86.

[19] Salvestrini F., Muraro I., 1958, p. 86.

[20] Boulanger A., 1961, p. 82.

[21] Boulanger A., 1961, p. 86.

[22] Pasquale U.M., 1962, p. 216.

[23] Pasquale U.M., 1962, p. 220.

[24] Alberti A., 1964, p. 124.

[25] Bucciarelli C., 1965, p. 115.

[26] Bucciarelli C., 1965, p. 115-116.

[27] Bucciarelli C., 1965, p. 122.

[28] "Progetto Uomo", 1993, p. 144.

[29] "Progetto Uomo", 1993, p. 145.

[30] "Progetto Uomo", 1993, p. 145.