Pena di morte - La catechesi

«Che questo sventurato accolga le anticipazioni della misericordia infinita: che accetti la sua pena, e si studi di trasformarla in un'immolazione volontaria. Così l'ordine morale da lui alterato col suo delitto, si trova ristabilito col suo sacrifizio. La giustizia raggiunge il suo fine più elevato, ed il potere umano non ha da arrossire da una severità la quale fa di esso il ministro di Dio» (Monsignor D'Holst, 1896).

«…anche nella pena di morte è la giustizia che si alza in tutta la sua maestà per additare e sfolgorare l'enormità del delitto. In ambo i casi dobbiamo ammettere che a mali estremi occorrono estremi rimedi» (Martinati A., 1940).

«le motivazioni abolizioniste non hanno delle radici profonde nella coscienza della società occidentale. Neppure la sua religione di maggioranza, quella cristiana, ne ha fatto uno dei suoi temi portanti. Salvo che per alcune chiese e movimenti cristiani di minoranza, le grandi chiese storiche, compresa quella cattolica, sono andate un po’ a rimorchio della cultura giuridica umanistica, ma non hanno fondato teologicamente, e quindi radicato nella coscienza religiosa della gente, un no forte e chiaro alla pena di morte [… Oltre che la storia, ha pesato certamente anche la posizione della Bibbia che spesso considera la pena di morte un dato di fatto della realtà umana e che, per questo, va regolamentata» [Eugenio Bernardini, vice moderatore della “Tavola Valdese”: www.chiesavaldese.org]

La dottrina della pena

Una delle caratteristiche della pena è dare soddisfazione a chi dalla colpa è stato offeso, sia esso il singolo o la società:

«Ben è lecito (sempre non però atteso l'ordine della carità), desiderare, o compiacersi dell'infermità, e anche della morte dell'empio, per esempio degli altri, o acciocchè cessi quegli di dare scandalo, o di far danno d'altro modo all'anime altrui». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 74]

La lecita uccisione degli altri

Su questo argomento, Alfonso de’ Liguori richiama innanzitutto la posizione tradizionale della Chiesa cattolica:

«A niuno è lecito uccidere un altro uomo, se non già o per autorità pubblica, o per difesa propria. Per l'autorità pubblica possono certamente uccidersi i rei condannati, ed anche i proscritti (volgarmente fuorgiudicati), purchè si stia nel territorio del principe proscribente». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 162]

«per l'autorità pubblica è ben lecito, anzi è obbligo dei principi e de' giudici di condannare i rei alla morte che si meritano, ed è obbligo de' carnefici di eseguire la condanna. Dio stesso vuole che siano puniti i malfattori». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 936]

E più avanti scrive:

«Le leggi civili posson farsi solamente da principi che non riconoscono superiore. Elle obbligano in coscienza, semprechè non si trovano corrette dal ius canonico». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 651]

La sollecitudine della Chiesa, nel caso dell'uccisione per decisione dell'autorità pubblica, consiste di fatto nel solo garantire al condannato a morte tutta l'assistenza religiosa possibile, per facilitargli il transito nell'aldilà. Dunque nel rendere possibile la confessione e comunione prima del patibolo:

«il giudice è tenuto sotto colpa grave a concedere al condannato a morte il tempo per confessarsi, ed anche di comunicarsi, purchè (parlando della comunione) non si tema altrimenti grave danno; poiché allora obbliga il precetto divino, stando il reo veramente in pericolo di morte; sicchè può ben egli comunicarsi anche non digiuno». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 162]

L'uccisione dell'innocente

In alcuni casi può essere coscientemente messa in gioco la vita dell'innocente, che altri intendono uccidere. Alfonso de’ Liguori così sentenzia:

«Direttamente non è lecito mai; ma indirettamente è lecito in certi casi […] Se il tiranno minaccia l'eccidio della città se non si uccide l'innocente, non è già lecito l'ucciderlo, ma è permesso consegnarlo al tiranno, quando colui ricusa di presentarglisi […] perché allora egli è obbligato a presentarsi per evitare il danno comune; onde quando ricusa si fa reo, e come reo può ben la repubblica consegnarlo". [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 166]

Allo stesso modo

«è lecito nella guerra indirizzare i cannoni o altri stromenti verso il luogo dei nemici, quantunque gl'innocenti avessero a patirne la morte». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 166]

La casistica annovera casi per noi sconcertanti, ma tradizionalmente ammessi:

«Se taluno fuggendo a cavallo non può scampar la morte dal nemico che lo perseguita, se non colla morte del bambino che si trova in una stretta via, ben può quegli fuggire, purchè il bambino sia battezzato». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 166]

Tale sentenza apppare ovviamente di problematica applicazione, non essendovi contrassegni ordinariamente atti a riconoscere a vista sulla pubblica via un battezzato; in ogni caso evidenzia una totale svalutazione della vita corporale.

Tanto appare permissiva la dottrina nei confronti dell’uccisione di un innocente bambino, quanto essa appare severa nel caso di un innocente ‘non nato’:

«Procurare l'aborto di proposito, certamente è sempre illecito, ancorchè il feto fosse inanimato; perché se non si offende la vita d'alcuno, si offende almeno la natura della generazione». [de’ Liguori A.M, 1757; ed. 1880, p. 166]

L'assistenza ai condannati a morte

Circa l’assistenza che i sacerdoti debbono offrire ai moribondi, la posizione tradizionale è ispirata a motivazioni caritative:

«L'opera di aiutare i moribondi a ben morire è l'opera di carità più cara a Dio, e più utile della salute dell'anime; mentre nel tempo della morte (da cui dipende l'eterna salute di ciascuno) gli assalti dell'inferno son più terribili e gli infermi sono meno atti ad aiutarsi da se stessi». [De’ Liguori A.M., 1757; ed. 1880, p. 843]

Tale opera di carità ha anche lo scopo di aiutare il moribondo a sconfiggere la «tentazione di disperazione» in cui egli incorre allorché considera gli affetti e le vicende terrene che lascia:

«A coloro cui sa duro il morire per esser giovani, bisogna por loro avanti le miserie della presente vita, l'infermità, i rancori, e sovra tutti i pericoli di peccare, e dannarsi. Perciò i Santi desideravano la morte. […] Si esorti l'infermo a ringraziare Dio, che non gli abbia mandato la morte, quando stava in peccato, e lo faccia morire allora co' santi sagramenti, e con tante speranze della salute eterna. […] Contro la tentazione d'attacco a' beni, e parenti. A coloro a cui dispiace il morire per trovarsi attaccati a' beni di terra, dica, che questi non sono veri beni, ma beni di scena, che mancano, e se non mancano, apportano più pena che contento. I veri beni che appieno contentano, e non mancano mai, sono i beni che Dio ci apparecchia in cielo. Se l'infermo s'affligge per dover lasciare la moglie, i figli o altra persona amata, gli si dica: fratello mio, tutti abbiamo da morire; salvatevi voi, perché in cielo pregherete per essi, e poi starete beati per tutta un'eternità. […] Se poi sta afflitto, perchè lascia i parenti poveri, gli si dica: se voi vi salvate, come spero, meglio potete aiutarli di là, che di qua. Ma non gli dubitate, che quel Dio che alimenta gli uccelli, non lascierà di provvederli». [De’ Liguori A.M., 1757; ed. 1880, pp. 846-847.]

«Procuri il confessore con taluno di questi poveri afflitti di trattarlo con tutta la carità e pazienza. Nella prima visita cominci a fargli intendere, che quella morte è grazia che Dio gli fa, perché lo vuol salvo. Gli dica, che tutti abbiamo da morire, e che tra breve andrà all'eternità o della vita felice dei beati, o dell'infelice de' dannati; e poi l'esorti a ringraziare il Signore, che l’ha aspettato sino a quel punto, e non l'ha fatto morire quando stava in peccato. L'induca infine ad accettare la morte, unendola colla morte che Gesù patì per suo amore; e l'animi col dirgli, che se accetta la morte, è salvo, e salvo con suo gran merito, onde ne avrà un gran premio in paradiso». [De’ Liguori A.M., 1757; ed. 1880, p. 634]