Il primo cristianesimo e la pena di morte
Il Cristianesimo dei primi secoli aborrisce la pena di morte. L’ideale della non violenza ben si addice ad una religione minoritaria, ben presto avversata dal potere. I primi cristiani rifiutano anche l’uccisione in sé meno deprecabile, quella in giusto combattimento. Per questo (e per cause più strettamente politiche) rifiutano il servizio militare; sicchè molti vengono martirizzati in quanto considerati ostili all’impero.
Nel 178 Atenagora di Atene scrive la sua “Supplica per i cristiani”, indirizzata a Marco Aurelio, nell’intento di controbattere le accuse di ateismo, di cannibalismo, di incesto e di immoralità:
«Noi non solo non siamo cannibali ma non sopportiamo neanche l'uccisione di un uomo giustamente condannato; noi abbiamo rinunciato ad assistere agli spettacoli dei gladiatori; noi affermiamo che l'aborto è omicidio. Noi siamo al servizio della Ragione non suoi padroni: le cose dette prima non solo sono dette sulla base della Fede ma anche secondo Ragione».
Ma già Tertulliano, nel secondo secolo, mentre depreca alcuni aspetti della condanna a morte (in particolare, il fatto che possa capitare di giustiziare un innocente), non nega la liceità in sé di tale pena:
«È bene che siano puniti i colpevoli. Chi negherà ciò, se non il colpevole? Tuttavia non è necessario che gli innocenti si rallegrino del supplizio altrui, chè anzi sarebbe giusto che l’innocente si dolesse per il fatto che un uomo, suo simile, si sia reso così colpevole da essere sacrificato così crudelmente». [Tertulliano, De spectculis, 19]
Origene, da parte sua, sostiene che portare la pena del proprio peccato è cosa peggiore che l’essere giustiziati, in quanto con la pena di morte il colpevole espia pienamente la colpa, di cui non resta traccia.
Quando Costantino eleva il Cristianesimo a ‘religione di Stato’, i cristiani cambiano atteggiamento, e per loro diviene legittimo perfino il combattere, secondo il principio della ‘guerra giusta’; adesso, l’omicidio ‘legale’ non offende più le loro coscienze. Quel che sembra chiaro, è che i cristiani non hanno in realtà nessuna pregiudizio dottrinario di fondo che li spinga a contestare quanto configurato, in questo senso, nella legislazione dell’impero romano; mentre la loro condanna dell’aborto e dell’infanticidio, che erano pratiche frequenti nel mondo romano, resta forte e costante.
Tanto per fare un esempio illustre, nel V secolo Agostino (che fra l’altro riteneva legittima la schiavitù) afferma:
«se l’omicidio è uccidere un uomo, può essere commesso in qualche caso senza peccato; ad esempio il soldato uccide il nemico, il giudice o il suo esecutore il delinquente […] Secondo me, costoro non peccano quando uccidono un uomo»; [Agostino d’Ippona, De libero arbitrio, I, 4]
così, coerentemente, esalta Teodosio che
«dall’inizio del suo stesso impero non cessò di aiutare la Chiesa travagliata per mezzo delle sue giustissime e misericordiosissime leggi contro gli empi»
e sostiene spavaldamente:
«i cristiani non uccidono nessuno eccetto quelli che Dio comanda di uccidere […] Eccetto dunque quelli che o una legge giusta generaliter o la stessa fonte della giustizia, Dio, specialiter comanda di uccidere...».
Così, sotto Giustiniano, viene comminata la pena di morte agli ebrei che negano il dogma della Resurrezione.
In realtà, anche prima di Costantino, la norma biblica della vendetta e della punizione dei nemici non viene, in linea di principio, rigettata. Tertulliano, che scrive nel 202, gode sadicamente della punizione dei reprobi nel giudizio finale:
«Che spettacolo immenso allora! Che cosa ammirerò? Di che riderò? Dove godrò, dove esulterò vedendo tanti re, che si celebravano accolti in cielo, gemere con lo stesso Giove e i suoi testimoni nelle tenebre più profonde? E, come loro, i magistrati che perseguitavano il nome del Signore, struggersi su fiamme più spietate di quelle con cui avevano incrudelito sui cristiani, insultandoli?» (“De spectaculis”).
Lattanzio, che scrive nel 316, enumera le sofferenze dei sottoposti all’ira di dio:
«Quelli che avevano insultato Dio giacciono, quelli che avevano abbattuto il santo tempio caddero con rovina maggiore, e quelli che avevano scarnificato i giusti, profusero le loro anime malvagie sotto i colpi celesti e i meritati tormenti» (“L’ira di Dio”).
Non è dunque l’idea in sé dei tormenti che disturba la coscienza dei cristiani, bensì la paura che questi siano applicati a loro.
Questi pochi esempi sulle posizioni della Chiesa nel primo millennio del Cristianesimo evidenziano sufficientemente le posizioni più autorevoli, che oscillano in sostanza da una ambiguità di fondo ad un pieno consenso verso la pena di morte, posizioni dunque assolutamente non aderenti a quell’idea del rifiuto ‘evangelico’ che si vorrebbe oggi proporre come legittima. Non a caso, da parte cattolica si è costretti ad ammettere:
«Durante tutto il periodo dei Padri della Chiesa non c’è alcun tipo di pronunciamento magisteriale ufficiale, né diretto né indiretto. D’altronde, come di solito accade, è la controversia attorno a qualche problema che fa approfondire la riflessione teologica e provoca anche l’intervento del Magistero. Il suo silenzio per tanti secoli testimonia, indirettamente, come la questione della pena di morte non fosse oggetto di particolari discussioni né di divergenze sostanziali, nonostante le diverse posizioni di alcuni Padri. In conclusione, possiamo affermare quindi che la Chiesa del primo millennio, sia pure con diverse sfumature, presenti soprattutto nei primi secoli, sembra riconoscere il diritto dello Stato di potersi servire della pena di morte, invitando però i cristiani a non rallegrarsi per la sua esistenza, possibilmente a non prendere parte alle esecuzioni, e invitando magistrati e giudici alla clemenza. Lo spirito e la lettera del Vangelo, per quanto non vietino in ogni caso di ricorrere alla pena capitale, tuttavia sono depositari di un messaggio che dovrebbe far sentire al cristiano il contrasto tra la condanna a morte e l’impegno a vivere secondo una parola che invita all’amore, alla speranza, alla conversione, alla fiducia nella possibilità di riscatto per ogni uomo». [Tamanti R., 2004, p. 127]