Eremiti post-moderni

Di Francesco D’Alpa   Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

L’utilizzo intensivo ed ossessivo di Internet, quasi fine più che mezzo, imprigiona la mente, condiziona attenzione, memoria, capacità di ragionamento, emozioni. Così la Rete può divenire nemica del pensiero. Come nel caso degli hikikomori: adolescenti o giovani adulti, che hanno scelto volontariamente di ritirarsi dalla propria comunità, e strutturano un proprio esclusivo spazio vitale (e soprattutto mentale), basato su valori non codificati dal pensiero di massa, giungendo talora a gradi estremi di isolamento e confinamento. [1]

Nel mondo occidentale, ed in Italia in particolare, il loro comportamento è associato quasi sempre alla dipendenza da Internet, anche se ciò non rappresenterebbe di per sè un autonomo quadro psicopatologico, ma solo un sintomo psicologico. È certo, in ogni caso, che l’uso compulsivo e prolungato della rete causa dipendenza, compulsività, sovraccarico cognitivo, ridotto rendimento, perdita di interessi per la vita reale; che genera irritabilità, irrequietezza e depressione quando disconnessi; e che induce una perdita graduale delle competenze sociali, dei riferimenti comportamentali e delle abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno, lasciando ampio spazio all’autocompiacimento ed al narcisismo. Senza contare che alla dipendenza da internet si affianca oramai quella da smartphone, uno strumento che si presta ancor più ad un uso compulsivo, a causa del quale viene fortemente ridotta l’attenzione prestata ai contenuti della comunicazione.

Secondo vari autori soltanto il 10% degli hikikomori giapponesi (secondo alcune stime circa un milione) naviga tuttavia su Internet, o comunque ne è condizionato. Molti di loro (ancor più ciò accadeva in passato) leggono instancabilmente, ed escono di casa solo per andare a comprare nuovi libri; altri passano il tempo a dormire, meditare o fare sogni lucidi, o semplicemente oziano; soffrono frequentemente di disturbi alimentari; hanno in genere un rapporto conflittuale con il proprio corpo.

Il fenomeno hikikomori va dunque inteso in un ambito ben più ampio della sola dipendenza da Internet, ma generalmente se ne enfatizza la loro associazione. Così, a prima vista, la più rilevante caratteristica della vita di un hikikomori sembra essere la sostituzione dei rapporti sociali ‘diretti’ con quelli ‘mediati’ da Internet: il che appare una contraddizione in termini, poiché, a dispetto del rifiuto del rapporto fisico, non manca una interazione con altri esseri umani, anche se generalmente anch’essi hikikomori.

Qualcosa di nuovo?

Secondo la Società italiana di Psichiatria, nel 2013 circa 3 milioni di italiani fra i 15 ed i 40 anni erano predisposti alla dipendenza da Internet, e circa 30.000 adolescenti potevano essere inclusi nel novero degli hikikomori.

Ma si tratta di una malattia della modernità? Probabilmente no. Lo stato hikikomori va infatti inquadrato (come dimostra la realtà giapponese) ben oltre la semplice dipendenza da Internet. Contrariamente a quanto viene immediato supporre, Internet non è infatti la causa diretta del ritiro sociale (e dei danni che ne conseguono) ma solo il mezzo più moderno atto a realizzarlo (senza peraltro impedire, come compromesso, di mantenere un qualche contatto con il resto del mondo).

Importanti modalità di ritiro sociale (spinte fino a forme estreme di coercizione) sono in realtà sempre esistite [2]; ed oggi, semplicemente, sono divenute più visibili (o anche più facilmente attuabili) [3]. Basti pensare a due concetti che hanno avuto grande sviluppo nell’occidente cristiano: eremitaggio e reclusione. [4]

Il restringimento del campo esperienziale e la focalizzazione estrema su di una sola modalità comunicativa, tipica di Internet, hanno ad esempio forti analogie con quanto, fra decimo ed undicesimo secolo, prescriveva nella sua regola, San Romualdo, anacoreta e padre dei monaci Camaldolesi: «Siedi nella tua cella come in paradiso; scaccia dalla memoria il mondo intero e gettalo dietro le spalle, vigila sui tuoi pensieri come il buon pescatore vigila sui pesci. Unica via, il salterio: non distaccartene mai. Se non puoi giungere a tutto, dato che sei venuto qui pieno di fervore novizio, cerca di cantare nello spirito e di comprendere nell'intelligenza ora un punto ora un altro; e quando leggendo comincerai a distrarti, non smettere, ma correggiti subito cercando di comprendere. Poniti innanzitutto alla presenza di Dio in timore e tremore, come chi sta al cospetto dell'imperatore; annullati totalmente e siedi come un bambino contento solo della grazia di Dio e incapace, se non è la madre stessa a donargli il nutrimento, di sentire il sapore del cibo e anche di procurarsene». [5]

Altri aspetti della dipendenza da Internet richiamano il comportamento dei classici eremiti: il bisogno di prolungare la connessione (analogo all’abnorme tempo riservato alla preghiera), la creazione di una vera e propria realtà parallela preferibile alla vita reale (le visualizzazioni della pratica mistica), l’imporsi di comportamenti ossessivi financo autolesionisti (le veglie, le ‘discipline’). Nei casi estremi si manifestano sintomi di dissociazione e depersonalizzazione, alterazione degli stati di coscienza e della memoria, dispercezioni, allucinazioni, deliri, sintomi di astinenza (aspetti perfino esaltati, all’interno della vita religiosa).

Non a caso, gli hikikomori sono stati etichettati come ‘eremiti post-moderni’, giacchè hanno in comune con questi loro predecessori almeno due elementi fondamentali: la volontaria esclusione sociale ed il ritiro in una cella, che li priva in parte o del tutto (almeno per certi periodi) del contatto con i familiari e gli amici.

Come nel caso degli eremiti, che rifiutano il ‘mondo’ (ovvero ciò che trovano peccaminoso e contrario alle leggi di Dio), l’hikikomori si ribella alla cultura tradizionale e all'intero apparato sociale, del quale non condivide ad esempio l’ossessione per il successo.

Come gli eremiti il tipico hikikomori soffre di depressione, manifesta comportamenti ossessivo-compulsivi. La sua paura di essere sporco può essere equiparata alla paura del peccato; le sue manie di persecuzione richiamano le ossessioni diaboliche; l’abituale inversione del ritmo sonno-veglia richiama le veglie di preghiera.

Anche per quanto riguarda il rapporto fisico con il mondo esterno non mancano le similarità. L’hikikomori (cui calza perfettamente l’appellativo di ‘single parassita’) si limita ad interagire con gli altri quasi solo per ottenere del cibo, ad esempio facendosi servire dalla propria madre senza uscire dalla propria stanza (analogamente, taluni eremiti si muravano nelle proprie celle ed un loro confratello li approvvigionava da una piccola apertura della parete). Così come gli eremiti aborrivano il ‘mondo’ perché figli della paura della dannazione eterna, l’eremita post-moderno esprime il rifiuto della omologazione sociale.

In un certo senso, lo hikikomori esprime una contro-cultura che si presenta come una confusa estensione di pratiche a loro modo spirituali, vissute senza particolari sensi di colpa, basate su di una interconnessione che sembra contraddire l’assenza di una esperienza concreta (ma che non può compensare i danni mentali del mancato contatto sociale). Ma anche dietro scelte di vita radicali apparentemente ispirate da una esigenza spirituale, si sono sempre celati bisogni di fuga, rifiuti di responsabilità, disadattamento psicologico, difficoltà relazionali. Ed a differenza dell’eremitaggio (piuttosto limitato quantitativamente), il fenomeno dello hikikomori ha una rilevanza sociale a causa del numero dei soggetti coinvolti.

 

[1] Hikikomori (da “ritiro”, “isolarsi”, “stare in disparte”). Termine introdotto in Giappone intorno al 1990; indica sia una condotta sociale, sia colui che si è ritirato nella sua stanza e non prende più parte alla società, in assenza di una patologia mentale che ne possa essere riconosciuta come causa.

[2] Le testimonianze abbondano; prendiamo a caso: «S. Gregorio Nazianzeno dice, che molti del suo tempo, non solo vivevano nelle grotte, ma s'incatenavano volontariamente, e altri vi si rinchiudevano talmente, che mai vedevano huomo vivente: e alcuni stavano senza mangiare vinti giorni continui, e altrettante notti, acciocché in modo tale imitassero mezzo il digiuno di Giesu Christo nel deserto.» Giovanni da Castagnizza: Historia della vita di s. Romualdo padre e fondatore dell'ordine Camaldolese, ch'è una Idea, e forma perfetta della vita solitaria. Domenico Imberti, Venezia, 1605. pp. 72-73.

[3] In Giappone, ad esempio, vi sarebbero oltre dieci milioni di ‘single parassiti’: giovani adulti che vivono in cdsa dei genitori ed interamente a loro carico, senza alcuna propensione ad inserirsi nel mondo del lavoro ed a crearsi una vita indipendente.

[4] Il reclusorio era una cella comunicante con l’esterno solo attraverso una finestrella che consentiva appena il passaggio di vivande e dell’aria.

[5] San Bruno di Querfurt (974 ca.-1009): Vita dei cinque fratelli (n. 32), in: Padri camaldolesi, Privilegio d'amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, p. 233.

 

[Pubblicato su www.laiko.it, 13 settembre 2020]