La Chiesa cattolica è contro la pena di morte?


Il Codice Zanardelli del 1889 abolì in Italia la pena di morte, ad eccezione dei casi previsti dai Codici militari. Venne però ripristinata per alcuni gravi reati nel 1926, ed inserita nel Codice Rocco del 1930; quindi nuovamente abolita nel 1947 (sempre con l'eccezione del Codici militari), in base all'articolo 27 della Carta Costituzionale. A fronte di un dibattito, sempre particolarmente acceso, fra sostenitori e abolizionisti, la Chiesa Cattolica invece non ha mai ritenuto, fino ad ora, di dovere modificare la sua posizione, per nulla contraria alla pena di morte e che anzi in più punti la legittima, in evidente contrasto con la portata del messaggio evangelico.
Un indizio di forte ambiguità nella posizione attuale lo troviamo nell'ultimo Catechismo, laddove, nonostante i continui richiami alla sacralità della vita, di cui Dio sarebbe l'unico padrone, si afferma che "nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente" (CCC, 2258). Quel "a sé" lascia libero uno spazio d’intervento entro cui l'istituzione può invece legittimamente troncare la vita.
La legittima difesa nei confronti dell'omicida viene intesa dalla Chiesa Cattolica non solo come un diritto, ma perfino come un dovere, da parte dello Stato, finalizzato al bene comune (CCC, 2265); infatti viene ritenuto pienamente fondato "il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte […] La pena ha come primo scopo quello di riparare al disordine introdotto dalla colpa." (CCC, 2266). Un secolo di progresso sociale non sembra avere minimamente inciso sulla dottrina cattolica, che infatti all'inizio del novecento affermava: "La legittima e pubblica autorità, quando la difesa dei diritti e del buon ordine sociale lo esiga, può ordinare la guerra, e la punizione dei malfattori colla morte.[…] L'uccisione di un uomo è un delitto, quando si faccia per mero arbitrio, e con l'animo perverso di offendere il prossimo. Ma […] nei casi ove la pubblica autorità operi a sostegno e a tutela dell'ordine sociale, convien intendere ch'ella opera in nome del padrone della vita, che è Dio, il quale vuole che sia mantenuta la giustizia nella società" (Giovannini E., 1900, p. 311).
Nel commento ufficiale all'attuale Catechismo si precisa che "non è che la Chiesa abbia emanato una particolare norma in materia" (Concetti G., 1993, p. 1055). Questa affermazione non esclude però che Dio stesso, secondo la tradizione anticotestamentaria, abbia legiferato in merito.
Il problema principale all'attenzione della Chiesa non sembra affatto quello della liceità in sé e di fronte a Dio della pena di morte, quanto piuttosto quello della verifica della sussistenza di una "legittima autorità" a far ciò, cioè "quella istituzionale di uno stato democratico o anche autoritario accettato dal popolo"; in secondo luogo viene valutata la "equità" della pena; in tal senso si sostiene addirittura che "la proporzionalità della pena indicata dal catechismo supera il valore della vita" (Concetti G., 1993, p. 1055).
Nell'Antico Testamento la condanna a morte è presentata come espressione particolare del diritto di vita e di morte proprio di Dio e da lui delegato all’autorità statale, secondo la legittima scala gerarchica.
Ovviamente, la legge morale rivelata sarebbe giusta, infallibile, immutabile, universale, obbligatoria; ed inoltre "necessaria", in quanto l'uomo non potrebbe vivere senza. E "dalla legge eterna derivano tutte le leggi; e qualunque legge contraria alla legge eterna, non ha forza di legge, ossia non obbliga in coscienza, perché contraria a ciò che Dio vuole" (Maccono F., 1921, pp. 8 e 33).
Il Signore affidò a Mosè il comandamento "Non uccidere" (Esodo, 20, 13; Deuteronomio, 5, 17) interpretato sempre come riferentesi sia alla distruzione che al ferimento, e estensivamente come offesa al corpo o all'anima. L'interpretazione tradizionale della Chiesa ne ha sempre limitato il campo di applicazione, precisando che il senso è quello di "non far morire l'innocente e il giusto"(Esodo, 23, 7). Ma il principio ricorre costante in tutte le fonti (vedi ad esempio: Tihamer T., 1945, p. 19), quando riferito all'omicidio volontario. Tale precisazione è fondamentale.
Nell'Esodo (21, 12) si afferma: "Chi percuote un uomo, da farlo morire, sia messo a morte"; e la stessa pena viene comminata perfino per percosse, rapimenti e ingiurie. Nel Deuteronomio si distingue chiaramente fra casi di omicidio involontario e volontario. Nel primo caso si precisa: "Ecco quale omicida vi si potrà rifugiare e aver salva la vita: chiunque avrà ammazzato il suo prossimo involontariamente e senza averlo odiato per l'addietro […] Altrimenti il vindice del sangue, col cuore infuocato dall'ira, potrebbe rincorrere l'omicida e inseguendolo a lungo, raggiungerlo e colpirlo a morte, benché non ci sia giusta causa per condannarlo a morte, non avendolo odiato per l'addietro" (19, 4-6). Nel secondo caso la disposizione è più categorica: "Ma se un uomo odia il suo prossimo, gli tende insidie, poi lo assale e lo percuote a morte, anche se si rifugia in una di quelle città, gli anziani mandino a prenderlo e lo diano nelle mani del vindice del sangue, perché egli sia messo a morte. Il tuo occhio non si muova a pietà: togli da Israele la colpa del sangue innocente e ne avrai del bene" (19, 11-13) Più oltre viene ulteriormente precisato: "Il tuo occhio non si muova a compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede" (19, 21).
L'assassino può dunque essere giustiziato, impiccandolo, ed il suo cadavere dovrà poi essere presto rimosso e seppellito, lo stesso giorno, affinché non contamini la terra (Deuteronomio, 21, 22).
Mosè, uomo di Dio, si prende perfino qualche libertà, applicando una giustizia personale: "Cresciuto Mosè, un giorno andò a trovare i suoi fratelli; conobbe i loro duri lavori, e vide un Egiziano percuotere un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Egli allora si voltò di qua e di là; e, visto che non c'era nessuno, uccise l'Egiziano e lo nascose nella sabbia" (Esodo, 2, 11-12).
Non mancano comunque affermazioni di tono contrario, per esempio: "Mi rallegrai forse della sventura di chi mi odiava e godei perché un malanno l'incolse? O permisi che la mia bocca peccasse chiedendo la sua morte con imprecazioni?" (Giobbe, 31, 29-30); ed ancora: "Per qualunque torto non serbare rancore al tuo prossimo, e non lasciarti trasportare dalla superbia"(Ecclesiastico, 10, 6). Ma esse non mutano l'orientamento generale.
Il nuovo testamento dovrebbe capovolgere il paradigma, sostituendo alla vendetta il perdono o la sopportazione, almeno da parte dei singoli: "Avete udito che fu detto: "Occhio per occhio, dente per dente". Ma io vi dico di non resistere al malvagio" (Matteo, 5, 38-39). In effetti, c'è chi comunque provvede a punire il colpevole, per come precisa S. Paolo: "Se è possibile, per quanto sta da voi, vivete in pace con tutti. Non vi vendicate, carissimi, ma cedete il posto all'ira divina: poiché sta scritto: "A me la vendetta, io darò ciò che spetta", dice il Signore" (Romani, 12, 18-19). Nella fattispecie, questa legittima attuazione della giustizia è demandata da Dio all'autorità terrena legittima: "Ognuno sia soggetto alle autorità superiori; poiché non c'è autorità che non venga da Dio, e quelle che esistono sono costituite da Dio. Perciò chi si oppone all'autorità resiste all'ordine stabilito da Dio"(Romani, 13, 1-2). Questa autorità va assolutamente rispettata, in quanto fondata sul diritto divino: "Ora, se giudichi la legge, non sei osservante della legge, ma giudice. Uno solo è il legislatore e il giudice…" (Giacomo, 4, 11-12).
Predicando di rendere a Cesare quello che gli é dovuto, Cristo riconosceva la separazione fra il potere umano e politico legittimo e quello della coscienza, riferito a Dio; anche se, nonostante ciò, non si potrebbe ammettere una onnipotenza assoluta ed universale della pubblica autorità, che, essendo un potere ministeriale, deve comunque conformarsi alla sorgente superiore del diritto che è Dio stesso, alla cui sapienza si deve ispirare il più in alto nella gerarchia umana ("In nome mio regnano i re e i magistrati amministrano la giustizia; in nome mio comandano i principi, e i sovrani governano con rettitudine") (Proverbi, 8, 15-16); per S. Paolo, "non è senza motivo che il potere porta la spada: esso è il ministro di Dio nella sua ira, contro colui che fa il male" (Romani, 13, 4); i governanti debbono rendere sempre ragione a Dio: "Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più tenerla" (Luca, 16,2).
Gesù sembrava avere superato le norme giudiziarie arcaiche che regolavano la vita dei Giudei; tuttavia la Chiesa non ha mai chiesto che l'autorità civile abrogasse, quelle in accordo con l'Antico Testamento. Cristo stesso, interrogato da Pilato, affermava: "Non avresti alcun potere sopra di me se non ti fosse stato dato dall'alto" (Giovanni, 19, 11).
La soppressione della vita umana è uno dei peccati più orrendi; solo Dio avrebbe il potere di disporne. Secondo il Magistero della Chiesa Cattolica, l'esercizio della pubblica autorità deve essere comunque sempre diretto al bene della comunità e nei limiti della delega divina; per cui, "se dunque le leggi dello Stato contraddicono apertamente alla legge divina, l'osservarle sarebbe un delitto, le conseguenze delle quali ricadrebbero sullo Stato medesimo" (Leone XIII, Enciclica del 10 gennaio 1890). Un limite posto all'autorità dello stato è invece il suo rifiuto della religione, per cui "non è lecito ubbidire a leggi immorali di uno Stato ateo"(Jone E., 1952, p. 154).
Ma allora la vita, secondo i cattolici, rientra fra i diritti naturali? Apparentemente "la sottomissione dei cristiani ai poteri dello Stato ed il loro coscienzioso rispetto dei diritti di Cesare non implicano affatto l'abdicazione dei loro diritti naturali" (Berthier J., 1935, p. 294). Quindi, se la Chiesa accetta la pena di morte, vuol dire che non include la vita a tutti i costi fra i diritti naturali!
La sottomissione all'autorità dello Stato non verrebbe meno neanche di fronte ad un regime dittatoriale, onde è stato affermato:"Rispettate sempre l'Autorità costituita. Chi resiste all'autorità resiste a Dio…Obbedite ai vostri superiori, anche se cattivi, in tutto ciò che non è peccato" (Conferenze religioso-morali per gli avanguardisti, 1932, p. 214).
Esiste, non tanto sorprendentemente, un’altra giustificazione alla pena di morte, intesa quasi come anticipatrice del giudizio finale: "Gli argomenti contro la pena di morte non possono quindi appoggiarsi sul fatto che un potere statale legittimo non ne abbia il diritto, ma soltanto sul dubbio che gli uomini siano mai in grado di esercitare con vera giustizia un tale diritto, e di non abusarne.[…] Se si considera il problema della pena di morte esclusivamente dal punto di vista terreno, non vi può essere alcun argomento in suo favore […] la possibilità di abuso farebbe apparire questa pena come assolutamente inaccettabile, se non vi fossero altri punti di vista capaci di darle un senso. Questi però sono esclusivamente punti di vista di una osservazione soprannaturale. Fra di essi prendiamo in considerazione il potere punitivo dell'autorità terrena come partecipazione alla giustizia punitrice di Dio […] vista in questo modo la pena di morte può apparire moralmente giustificata e può sembrare che abbia un senso, se il delinquente soffre la morte come sacrificio espiatorio […] Allora, ma soltanto allora, la pena di morte ha un senso e può trasformarsi per il delinquente nell'ultimo beneficio terreno, in quanto, in compenso di una vita terrena distrutta, gli apre, grazie al "potere purificatore della morte", il passaggio alla vita soprannaturale" (Niedermeyer A., 1955, pp. 268-270).
Ma che cosa legittima il potere civile, se non Dio stesso? "La sovranità civile […] è stata voluta dal Creatore […] perché regolasse la vita sociale secondo le prescrizioni di un ordine immutabile nei suoi principi universali, rendesse più agevole alla persona umana, nell'ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica, intellettuale e morale e lo aiutasse a raggiungere il fine soprannaturale" (Pio XII, 1939, p. 467).
Dunque la pena di morte ha solide giustificazioni nella Bibbia. Come si spiega allora la diffusa convinzione, basata sul Catechismo, che in nessun caso si può uccidere? Non è difficile interpretare il quinto comandamento secondo le proprie inclinazioni: "Di fronte alla perversità e alla profonda cattiveria di certi uomini, e per dare un salutare esempio, il potere politico e giudiziario punisce certi delitti con la pena di morte; la Chiesa cattolica non protesta contro questa misura sociale che stabilisce la pena di morte. Lo Stato ha il diritto di colpire la vita umana? La pena di morte è in contraddizione con il quinto comandamento? A prima vista si potrebbe crederlo. "Non uccidere" dice il comandamento che sembra andar formalmente contro la legge civile; ma avviciniamo questa proibizione ad un'altra legge: "Non assassinare" cioè non togliere la vita a un innocente. Da queste parole deriva logicamente il diritto, per un Governo, di applicare la pena di morte agli assassini. Se si pensa che questa interpretazione del comandamento divino può sembrare un poco esagerata, la Sacra Scrittura ci prova chiaramente che esagerata non lo è affatto, e Dio, che ha dato a Mosè il comandamento "non uccidere", ha dichiarato anche che taluni peccati (Deuteronomio, 21, 2) sono passibili della pena di morte. Constatiamo dunque, leggendo l'Antico Testamento, che il Signore della vita e della morte ha dato ai legislatori il diritto di stabilire la pena di morte" (Tihamer T., 1945, p. 23).
La Chiesa cattolica ci mostra un'altra chiara contraddizione: da un lato essa intende difendere l'inviolabilità della vita umana, affermando che bisogna ricorrere alla pena di morte solo come ultimo mezzo per tutelare la difesa sociale, in casi estremi e quando ogni altro mezzo è vano; dall'altro, con una preoccupazione molto più terrena, ha sempre sostenuto che la pena di morte va mantenuta anche "per impedire agli uomini in generale di attentare, sotto il minimo pretesto, alla vita degli innocenti" (Tihamer, 1945, p. 24).
Dove stanno dunque la ragione e la verità? L'insegnamento secolare, unanime, dei padri della Chiesa e dei Teologi ha sempre affermato che la Bibbia non può contenere errori, in quanto Dio ne è il vero autore, che ha ispirato gli uomini; nulla di essa potrebbe essere realmente contraddetto né dalla scienza, né tanto meno dalla ingannevole morale umana (Krenzen F., 1976, pp. 126-139).
La preoccupazione della Chiesa sembra in fondo quella di sostenere un principio assoluto, e nello stesso tempo non dispiacere in alcun modo, e in qualunque contesto politico-istituzionale, alle esigenze di stabilità sociale, al più con qualche teorica riserva: "Il Cristianesimo ha convissuto con tutte le specie di ordinamenti sociali e politici, nei diversi gradi dello sviluppo storico-culturale e civile dei popoli, attraverso le diverse civiltà […] Naturalmente quando in seno alla democrazia o a qualunque altra forma di ordinamento politico si verifichino violazioni alla legge di Dio (e possiamo dire: dei Dieci Comandamenti), l'opposizione col Cristianesimo è chiara e la protesta della Chiesa inesorabile" (Spiazzi R., 1961, pp. 68-69).
Esistono è vero delle situazioni in cui il singolo può uccidere per legittima difesa, anche per difendere altri: "È lecito uccidere chi sta per uccidere altri, ingiustamente, per il precetto di carità che ci dice di amare il prossimo come noi stessi. Se posso uccidere chi vuole uccidere me, posso anche uccidere chi sta per uccidere l'innocente" (Maccono F., 1921, p. 96). Una facoltà di uccidere è concessa al soldato nel corso di una guerra giusta, se non può altrimenti nel corso di un'azione militare. La dottrina cattolica cerca di risolvere alcuni problemi di coscienza che si pongono in tali frangenti; e afferma che: "Nella guerra ingiusta non è lecito[uccidere i nemici]; ma il giudicare se la guerra sia giusta o no, spetta ai capi, non ai soldati. Nel dubbio se sia giusta o no, chi è già sotto all'armi, o è chiamato per legge, deve obbedire ai capi, e compie un atto di virtù e meritorio" (Maccono F., 1921, p. 96). Da qui tuttavia si compie facilmente il passo verso una certa legittimazione anche dell'omicidio ingiusto: "Il soldato oggigiorno deve ubbidire, perché è ben difficile che lui possa esaminare e giudicare se la guerra è giusta o no" (Locatelli L., 1961, p. 53).
Ma qual è il tipo di reato che autorizza la pena di morte? La Chiesa non si pronuncia, se non genericamente: "La società ha il diritto di fare leggi di pena di morte per certi reati gravissimi; e quindi la pubblica autorità potrà lecitamente uccidere chi le ha volontariamente violate" (Maccono F., 1921, pp. 96-97). Secondo il particolare momento storico e l'opinione dei teologi l'affermazione è risultata più o meno estensiva, ad esempio: "L'autorità ha l'obbligo, in primo luogo, di provvedere al bene comune. Essa pertanto deve, con tutti i mezzi, tener lontani tutti i mali dalla società…" (Jone E., 1952, p. 152).
Resta il principio di fondo che è alla base di una sorta di tacito accordo fra la Chiesa ed ogni Stato: "La Chiesa ha sempre riconosciuto allo Stato il diritto di infliggere in certi casi la pena di morte.[…] La società civile ha il diritto, per il bene comune, di infliggere la pena di morte ai malfattori, quando sia certo e giudizialmente provato il loro grave delitto. La pena di morte è in alcuni casi l'unica pena proporzionata alla gravità del delitto, e l'unico mezzo per la società di riparare l'ordine violato, di difendersi e salvarsi da certi delinquenti, che sono contrari al bene della società stessa, di mantenere l'ordine e di atterrire esemplarmente gli altri, perché non siano indotti a commettere simili delitti. Così la ragione ci persuade quello che il fatto storico di tutti i tempi e di tutte le nazioni ci mostra; e il fatto storico è un argomento sicuro, ché non si può accusare di ingiustizia tutto il genere umano. È vero che la pena di morte non emenda il reo, ma la pena alcune volte può essere solamente riparatrice e vendicativa. Per di più è esemplare, allontanando gli altri dal male" (Re G., 1930, p. 100). Questa validazione della pena di morte come misura preventiva del crimine era a suo tempo del tutto in linea con l'opinione espressa dai propugnatori del ripristino della pena di morte in Italia, per come si legge sul "Popolo d'Italia" del 29 settembre 1926: "non può essere negato che la pena di morte più di ogni altra pena sia atta ad intimidazione perché ciò è nell'ordine naturale delle cose e la sua funzione di coazione psicologica è dunque evidente".
L'esistenza di leggi ingiuste promulgate da un governo legittimo pone il cattolico in difficoltà. In linea di massima occorrerebbe ubbidire, e comunque ubbidendo non si commetterebbe un'azione illecita, moralmente ed agli occhi di Dio. Nella maggior parte dei casi si potrà comunque valutare quale dei due comportamenti, obbedire o disubbidire, rechi in concreto meno danni alla vita sociale. Ovviamente, nel caso della pena di morte, non c'è la presunzione di ingiustizia della legge in sé.
In quanto alla posizione di papa Wojtyla, nella Enciclica "Evangelium vitae" del 1995, egli aveva scritto che "i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono oramai molto rari, se non addirittura inesistenti" e tale concetto veniva ripreso nell'edizione latina del nuovo Catechismo, del 1997. Su questa linea, il 25 luglio e poi il 13 settembre 2000, il papa aveva chiesto la clemenza per Rocco Barnabei facendo appello allo "spirito di clemenza che è proprio dell'Anno Giubilare". In tale occasione aveva anche affermato: "Auspico inoltre che si giunga a rinunciare al ricorso alla pena capitale, dal momento che lo Stato oggi dispone di altri mezzi per reprimere efficacemente il crimine, senza togliere definitivamente al reo la possibilità di redimersi".
Contraddicendosi, tuttavia, nell'Enciclica Evangelium Vitae, lo stesso Papa si è limitato, come i suoi predecessori, a condannare in modo assoluto solo l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano "innocente".
Da parte laica il biasimo per la posizione cattolica è totale: "Anacronismi a parte, i moralisti e quanti altri non abbiano riluttanza a esprimere giudizi di valore potranno ben ritenere che certe parti del codice risultino barbare in qualsiasi epoca. Il codice è estremamente libero, ad esempio, nell'imporre la pena di morte" (Miles J. , 1996, p. 147), mentre è molto tollerante per altri importanti reati, come certi abusi e la schiavitù.
Ed in effetti la Chiesa Cattolica stessa riconosce di non avere avuto, nonostante le tante pressioni, "il coraggio di rompere con la cultura e la prassi del passato" (Concetti G., 1993, p. 1056). Mentre indica la via della pena incruenta, evita infatti di specificare quale potrebbe essere oggi la colpa che nei casi estremi giustificherebbe la pena di morte. Forse bandirla in modo assoluto sarebbe un altro duro colpo per l’autorità delle Sacre Scritture.

Bibliografia.
Berthier J.: Il sacerdote nel ministero della predicazione. Vol.IX, parte II. Libreria del Sacro Cuore A.e G. Sismondi. Torino, 1935.
Catechismo della Chiesa Cattolica (1992). Testo integrale e commento teologico. Piemme, Casale Monferrato, 1993.
Concetti C.: Il quinto comandamento. In: Catechismo della Chiesa Cattolica (1992). Testo integrale e commento teologico.Piemme, Casale Monferrato, 1993, pp. 1050- 1080.
Giovannini E.: I Doveri cristiani esposti alla studiosa gioventù italiana. Tipografia Pontificia Mareggiani, Bologna, 1900.
Ispettorato centrale per l'educazione e l'assistenza religiosa all'Opera Nazionale Balilla. Conferenze religioso morali per gli avanguardisti. Scuola Salesiana del libro, Roma, 1932.
Jone E.: Katholiche Moraltheologie. Trad. it.: Compendio di teologia morale. Marietti, Torino, 1952.
Krenzen F.: Was wir glauben. Lahn-Verlag, Limburg. Trad. it.: Compendio della fede cattolica per i credenti e i non credenti.Massimo, Milano, 1976.
Locatelli L.: Scienza Vera. I. La morale cristiana. Società Editrice Internazionale. Torino, 1961.
Maccono F.: Il valore della vita. Società Editrice Internazionale, Torino, 1921.
Miles J.: God. A Biography. Trad. it.: Dio. Una biografia. Garzanti, Milano, 1996.
Niedermeyer A.: Compendium der Pastoralmedizin. Verlag Herder Wien. Trad. It.: Compendio di medicina pastorale. Marietti, Torino, 1955.
Pio XII: Enciclica Summi Pontificatus. Acta Apostolicae Sedis, 1939, 13, pp.467 e segg.
Re G.: La morale cristiana. Società Editrice Internazionale, Torino, 1930.
Spiazzi R.: Democrazia e spirito cristiano. Quaderni integrativi della Rivista di servizio sociale. Roma, 1961.
Tihamer T.: I dieci comandamenti. Vol. II. Gregoriana Editrice. Padova, 1945.

Francesco D’Alpa

Pubblicato (in versione ridotta) su: "L'Ateo" n. 22 (2/2002)