Il posto della donna nel creato

Fra i documenti del pontificato di Giovanni Paolo II, ha un certo rilievo la “Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem” [MD], del 1988, testimonianza di un interessamento della Chiesa per lo specifico femminile che data almeno dal Concilio Vaticano II, e che in qualche modo tenta di compensare (ma anche di occultare) la tradizionale misoginia clericale, rincorrendo e facendo propri temi di grande attualità e già da molto tempo sottoposti a forte ripensamento in seno alla società. In tal senso, il pomposo enunciato della Costituzione Apostolica “Gaudium et Spes” del 1965, richiamato in apertura della “Mulieris Dignitatem” («l’ora è venuta […] in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto») non è una compiaciuta sottolineatura di un processo storico scelto e perseguito dalla Chiesa di Roma, ma più semplicemente il richiamo a ciò che è già socialmente acquisito, al di fuori della Chiesa e, in buona parte, nonostante essa (come del resto evidente per altri temi controversi).
La Chiesa si preoccupa di intervenire sull’argomento, probabilmente, non perché in fondo lo apprezzi, quanto piuttosto perché ad esso sono legate chiare minacce alla dottrina, sia nel contesto laico (contraccezione, libertà sessuale, aborto, matrimonio), che fra i religiosi (celibato, sacerdozio femminile). La parola d’ordine è, sempre e comunque: accettare ciò che si può senza intaccare il cuore della tradizione, ma rigidità dogmatica su tutto il resto, aggiustando quanto basta l’apologetica.

Lo specifico della donna

Partiamo da lontano, o meglio da molto vicino. Per Giovanni Paolo II è necessario «comprendere la ragione e le conseguenze della decisione del creatore che l’essere umano esista sempre e solo come femmina e come maschio» [MD, 1]. Il catechismo ci ha abituato a queste figure retoriche, che cercano di spiegare talune evidenze con ipotetiche ma vuote ragioni: ad esempio, ‘Dio ha creato l’Uomo per amarlo e servirlo’; ma Dio aveva proprio bisogno di essere amato e servito?
Dio avrebbe creato l’Uomo maschio e femmina per una particolare ragione? Tutto il mondo animale, per l’uomo della Bibbia, sembra essere composto di esemplari maschi e femmine, e non a caso Noè accoglie nell’arca una coppia di ogni specie. Dunque la femmina dell’uomo sta a lui come qualunque altra femmina sta al suo maschio; nessuna particolarità.
Di speciale la creazione dell’uomo avrebbe semmai proprio il fatto incontrovertibile che il maschio di Uomo (unico fra i viventi) non sarebbe stato creato insieme alla femmina di Uomo, e la specificità antropologica della donna è dunque l’essere differente (nel senso letterale di: ‘in subordine’) al maschio.
Perché allora la Chiesa sente finalmente di doversi occupare tanto del femminile? Solo a causa della attuale centralità del culto di Maria o come compensazione ad una tradizione misogina? La Chiesa di fatto ha sempre pensato al maschile, e lo specifico femminile (al di la della procreazione) è stato sempre visto quasi solo come uno scomodo incidente di percorso della creazione; dunque ci sono insieme un problema di relativo vuoto teologico ed uno di ‘immagine’.
Cosa si propone dunque Giovanni Paolo II? Commentare una verità di per sé evidente e già riconosciuta all’interno della Chiesa? affrontare, risolvendola, una distorsione dell’impianto teologico tradizionale? o nulla di tutto ciò?
Che uomo e donna pari non siano all’occhio del dio ebraico (e dei teologi e predicatori cristiani) risulta chiaro fin dalle prime pagine del testo sacro per eccellenza. Se infatti l’essere umano, l’unico che Dio avrebbe voluto ‘per se stesso’, ha una chiara centralità nella antropologia biblica, piuttosto discutibile appare il pari possesso di questo requisito da parte dei due diversi generi, uomo e donna.
La prima versione di Genesi è molto chiara in ciò: il dio vasaio forma Adamo (il ‘fatto da terra’) e solo in un secondo tempo (come per effetto di un ripensamento) gli affianca Eva (la ‘fatta da lui’), perché «non è bene che l’uomo sia solo». Nel progetto originario di Dio c’era forse un mondo di ‘maschi’ (o di asessuati?), o meglio, Adamo doveva restare unica creatura?
Come ben sappiamo, Genesi non fu il primo fra i testi biblici ad essere scritto, e la sua redazione corrisponde all’invenzione di una mitologia della nazione ebraica. Ma soprattutto, dietro ad ogni enunciato si cela un principio istituzionale: nel caso specifico, non quale ‘è’ ma quale ‘deve essere’ il posto di ciascuno nella società (o meglio, nella tribù). Ed il posto della donna, in tutte le comunità che si conformano ai dettami dei libri sacri dei monoteismi, è sempre dietro, mai accanto, all’uomo.
Il problema potrebbe interessare gli storici, se il costrutto di Genesi avesse ispirato solo le politiche sociali di un certo popolo, in un certo tempo; ma le cose non sono andate e non vanno così. Purtroppo, quelle parole sono tuttora parte integrante di una sorta di ‘carta’ delle religioni; che, secondo gli zelanti propugnatori e difensori dei monoteismi ‘del libro’, niente e nessuno può sovvertire: né l’egualitarismo figlio dell’illuminismo, né la scoperta scientifica delle vere origini umane,  né le riletture della teologia al femminile.
Per superare lo scoglio degli anacronismi biblici, almeno quelli del Vecchio Testamento, i preti hanno elaborato, sin dal primo affermarsi del cristianesimo, un potente antidoto: sostenere che ai tempi del Vecchio Testamento il ‘piano divino’ abbia potuto dipanarsi solo in parte, perché la degenerazione della natura umana e lo stato di semibarbarie non permettevano se non una graduale introduzione delle ideali norme sociali; e che solo la missione di Gesù aveva potuto svelare nella sua pienezza il messaggio della salvezza.
Da questo consegue un mutamento di taluni paradigmi. Ad esempio: ama il tuo nemico e perdonalo, anziché vendicarti su di lui o sulla sua famiglia o tribù, come ai tempi di Abramo; e così via.
E le donne? Certo Genesi non si può occultare o riscrivere (cosa che del resto neanche sarebbe convenuto, agli uomini-padroni); la si può però reinterpretare, come puntualmente accade per tutti i testi biblici, secolo dopo secolo, per quanto di essi conviene o meno.
Ecco che, d’un colpo, la donna acquisisce un diverso (ma più incerto), status, con tutte le ambivalenze di ciò che si basa su affermazioni di comodo non supportate da chiari riscontri testuali.
Si guarda soprattutto ai ‘Vangeli’. Cosa fare risaltare di più? Le donne che aspergono di oli con scandalosa familiarità il corpo di Gesù (come ripreso nel “Jesus Christ Superstar”), o le pietose donne che piangono attonite Gesù mentre fissano il sepolcro vuoto?
Ma Gesù amava realmente le donne, e Dio ne ha veramente bisogno? Il dubbio è fondato. È un dato di fatto che gli apostoli sono tutti maschi, e che la Chiesa di Roma se ne è fatta forte per sostenere una disparità fondamentale (e fondante) fra i religiosi uomini e donne, negando a queste il ruolo di mediatori sacramentali, e relegandole al ruolo subordinato di ancelle del culto.

Dignità senza parità?

La ‘Dignitatis mulieris’ tratta della chiesa per delineare ruolo e status della donna, o tratta della donna (come a suo tempo Paolo) per sottolineare ruolo e status della chiesa nel mondo?
Nei testi biblici, la dignità specifica della donna (se ve ne è una) deriva invariabilmente dal suo ruolo sociale: moglie ma soprattutto madre. Non a caso la donna nubile è quasi una aberrazione, e le donne sterili sono considerate una calamità ed evocano una colpa; mentre manca un equivalente maschile.
Come risponde allora la Chiesa alla richiesta di pari dignità sociale avanzata dalle donne? Radicando e imprigionando il genere femminile in ciò che essendo prerogativa dell’essere donna diviene di fatto la caratteristica principe delle donne: la capacità di generare. Sembrerebbe un riconoscimento, ma è una ineludibile concessione; giacché il mondo degli uomini non può fare a meno di questo apporto.
Né negli spazi sociali, né in quelli familiari, la Chiesa cattolica ha mai concesso né auspicato pari dignità, in assoluto, tra la donna e l’uomo. La dignità pensata per lei è quella genericamente riconosciuta a chi ha un ruolo subordinato, e solo limitatamente ad esso. Dunque l’uomo ha dignità come tale, anche al di fuori dei contesti sociali; la donna quasi solo come sposa o madre.
Non è forse un caso se, a differenza delle religioni primitive, il cristianesimo non ha una divinità madre. Il dio figlio è divino per parte di padre ma non di madre. L’intervento dello ‘spirito santo’ nel concepimento di Gesù introduce un assurdo (la sua doppia natura umana e divina), ma rende superflua la presenza di una dea madre.
Giovani Paolo II ama le problematiche esistenziali, meno la sociologia. Dunque non ha particolare considerazione per la donna in quanto tale  (la donna è stata voluta anch’essa da Dio ‘per se stessa’?), ma solo in quanto essa si relaziona all’uomo, sul modello del rapporto sponsale Chiesa-Cristo. Il che equivale di fatto a scotomizzare i problemi concreti. È lo stesso procedimento retorico adoperato da Paolo, che prende la donna a modello per trattare piuttosto della Chiesa, che struttura sul modello delle relazioni familiari del suo tempo. Giovani Paolo II illustra il processo inverso, suggerendo alle donne di comportarsi verso gli uomini come la Chiesa verso Cristo. I due ragionamenti potrebbero non avere senso, per la stessa Chiesa, fuori da queste interrelazioni.

Libertà nella sottomissione; senza amore?

Se i “Vangeli” canonici sono la raccolta postuma dell’insegnamento diretto di Gesù, le “Lettere” degli apostoli, la cui redazione in parte perfino li precede, sono i documenti fondanti del cristianesimo, ed in essi, più che nei “Vangeli” stessi, si mostra l’essenza originaria del cristianesimo.
La “Lettera di S. Paolo agli Efesini” può essere ritenuta, in tal senso, il documento principe sul ruolo della donna coniugata. Anche se non scritta a tal fine, ma proprio in quanto tratta l’argomento quasi per inciso, è particolarmente rivelatrice di quanto si dava evidentemente per scontato, e che ai moderni appare un proclama quanto meno imbarazzante: «come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto».
Purtroppo per le donne, come si vede, Paolo non era né tenero né accondiscendente verso il sesso che non amava. E così tutti i predicatori si sono dovuti industriare per disinnescare la carica maschilista insita nella “Lettera”.
Il termine sottomissione, in questo contesto, può avere un duplice significato. In termini positivi, indica l’accettazione di un primato di genere e di ruolo (dell’uomo) che si sceglie di riconoscere. In termini negativi, è adeguamento o sopportazione di una subalternità non negoziabile.
Così come l’alleanza nella sottomissione al ‘Signore Dio’ è il tema fondamentale delle Sacre Scritture, parimenti la sottomissione della moglie al marito è basilare nel modello coniugale proposto da Paolo. Mentre nella società cristiana occorre che tutti siano vicendevolmente sottomessi gli uni agli altri, perché tutti a servizio di Dio, in famiglia la moglie deve essere sottomessa al marito, e non viceversa; l’uomo deve alla donna ‘amore’ ma non sottomissione.
Come nel modello mariano montfortiano del ‘totus tuus’, la donna sottomessa all’uomo troverà in questa stessa sottomissione le ragioni della sua ‘libertà’: non dovere e non potere scegliere, non avere e non dovere avere responsabilità; ad esempio non potere scegliere se e quando figliare (George Orwell ha spinto al paradosso questo assioma fra i suoi personaggi: “la libertà è schiavitù; la schiavitù è libertà”; il dittatore Francisco Franco né ha fornito una applicazione concreta).
Ci sarà pure un motivo, se Paolo ‘impone’ alle donne di essere sottomesse ai loro mariti, ed invece ‘consiglia’ agli uomini di amare le loro mogli. Che gli uomini debbono essere sottomessi alle loro mogli lo scrive invece Giovanni Paolo II, e lo sottolineano i suoi commentatori, per evidenziare (oggi) la auspicata reciprocità del rapporto; ma per sostenere ciò teologicamente occorre abbandonare per un momento non solo il testo paolino, ma perfino la linea apologetica centrata sul rapporto gerarchico Chiesa-Cristo («Mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo nella Chiesa, nella relazione marito-moglie la sottomissione non è “unilaterale” bensì reciproca». MD, 24). Giovanni Paolo II deve dunque mettere in primo piano le argomentazioni socio-psicologiche.
Cosa al contrario intenda esattamente Paolo, lo conferma in una celebre omelia Giovanni Crisostomo, sottolineando il paragone quanto mai eloquente di Paolo: l’uomo deve avere cura della donna come del proprio corpo; la donna dunque deve essere ‘come il corpo dell’uomo’. Ma nell’antropologia cristiana il corpo, come ben sappiamo, non è l’Uomo e non può fungere da fine, né sottomettere l’anima.
Inversamente, il corpo deve essere trattato ‘come una donna’: sottomesso allo spirito che lo deve dominare convenientemente, ma che anche lo deve rispettare nella sua diversità, perché non può farne a meno. Allo stesso modo si può amare il cibo, o qualunque altra cosa di cui si abbia assoluta necessità, ma senza per questo dargli pari ‘dignità’, e forse neanche ‘dignità’.
In quanto tratta dall’uomo, quasi come materia a sua disposizione (come il corpo lo è dell’anima), inevitabilmente la donna porta dunque in se lo stigma dell’essere un ‘minus’ rispetto all’uomo.
Genesi” parla di compagnia della donna all’uomo, di procreazione tramite la donna, di “istinto” della donna verso l’uomo che comunque la “dominerà”, ma non di amore fra uomo e donna. Le relazioni fondamentali fra uomo e donna descritte in “Genesi” sono quelle proprie dello stato di ‘natura umana decaduta’. Giovanni Paolo II  sostiene invece che l’uomo non può mai considerare la donna come «0ggetto di dominio e di possesso maschile» e che «le parole del testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e le sue durature conseguenze sull’uomo e sulla donna» (MD, 10); quasi si parlasse di due antropologie diverse.
Solo Paolo e Giovanni Crisostomo sembrano leggere correttamente “Genesi”. Smontare questa interpretazione tradizionale è arduo se non impossibile; e non basta un papa!

«Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico inriferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito».
[Paolo di Tarso, “Lettera agli Efesini”, 5: 21-33]

 

«"E la moglie tema il marito". La moglie è la seconda autorità. Non chieda dunque costei la parità di onore: infatti è sottoposta al capo, e quello non la disprezzi come sottoposta: infatti è il corpo, e se il capo disprezzerà il corpo, anch’esso andrà in rovina; invece ponga l’amore come contrappeso all’ubbidienza. […] Come il capo, così anche il corpo: questo offra a quello in servizio le mani, i piedi, tutte le altre membra; quello si prenda cura di questo, riservando a se stesso ogni giudizio. Niente è migliore di questa unione. E come potrà esserci l’amore, dice, essendoci il timore? Soprattutto allora potrà esserci. Infatti colei che teme ama pure e colei che ama teme in quanto capo ed ama in quanto membro, poiché anche il capo è membro dell’intero corpo. Per tale motivo sottomise questo ma antepose quello, affinché regnasse la pace. Infatti dove ci fosse parità di onore non potrebbe esserci la pace, né se la casa possedesse un libero ordinamento né se tutti comandassero, ma è necessario che ci sia un solo comando. […] Perciò si sofferma di più su questo aspetto, che è fondamentale. E la moglie che crede di essere svantaggiata perché le è stato comandato di temere, ne trae vantaggio. Infatti al marito è imposto ciò che è più importante, di amare.[…] E che fare allora, se l’altro non sarà sottomesso? Tu ubbidisci alla legge di Dio. E così pure qui: la moglie dunque, anche se non è amata, tema ugualmente, affinché non ci sia niente di difettoso in essa; ed il marito, anche se la moglie non teme, ami ugualmente, affinché egli non manchi in nulla: infatti ciascuno ebbe il suo compito».
[Giovanni Crisostomo, Omelia XX sulla “Lettera agli Efesini”]

 

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 71 (5/2010)