Claudia Pastorino:  La centratura del Tao
Edizioni Clandestine, Massarosa (Lu), 2000, pagine 190, Euro 10.33.

Sin dalle prime pagine, ci si accorge di un libro sincero, scritto con passione, e sorretto da un vivo impegno verso l'applicazione pratica di quanto enunciato. Ma poi subentra l'impressione, sgradevole, di un testo fortemente inattuale, troppo lontano dalle vere problematiche etiche del nostro tempo, che non possono prescindere dalla riflessione scientifica. Non a caso, è facile ritrovarvi molti vecchi luoghi comuni della polemica antirazionalista ed antimodernista. Fra questi, particolarmente rivelatore dell'atteggiamento dell'autrice, il suo proclama per una maggiore attenzione verso la sfera istintuale e l'invito a "farsi guidare dal carattere animalesco ed universale, piuttosto che dal carattere umano", invito che di fatto conduce alle soglie di quel radicale contemptus mundi ("disprezzo del mondo") che fu una delle note caratterizzanti del cristianesimo a partire dall'epoca medievale; come se lo stesso carattere "umano" (cioè, in un certo senso, la parte sociale dell'uomo), ancor prima delle "cose del mondo", fosse una caratteristica peggiorativa del nostro essere.
All'idea illuminista che le risposte alle domande sul senso dell'esistenza vadano cercate osservando il mondo naturale, viene contrapposto il preconcetto a forte tinta religiosa che "le risposte sono già tutte qui, scritte dentro di noi". Prevedibilmente, a ciò si aggiunge la convinzione che un ben preciso "ordine e equilibrio", insiti nell'universo, si ritrovino dentro il microcosmo individuale del sé. E così via, assemblando confusamente le più diffuse convinzioni degli spiritualismi, anche i più esotici, del nostro tempo.
Come conseguenza, i principi morali e la derivante proposta operativa restano troppo generici e deboli, e suscitano il non ozioso interrogativo se non siano stati solo il puro sentimento e la scelta di vita dell'autrice (ecologista, animalista, ispirata da una lettura "pura" del  messaggio evangelico) a spingerla ad unire in un frettoloso collage frammenti di storia delle religioni, non sempre commensurabili, né lineari. Come nel caso dell'esperienza dei Catari; esaltati dalla Pastorino, ma, pur condividendo l'orrore per la loro persecuzione, affrontati dalla storiografia come eloquente dimostrazione di fondamentalismo religioso, fanatico e contrario alla vita; intollerante e assai più che sessuofobico; votato alla rinuncia alla famiglia e persino alla morte per inedia; sì che il loro messaggio risultò odioso ed antiumano già ai contemporanei. Perché, allora, mentre buona parte del libro invita ad una decisa presa di distanza dal Cattolicesimo e dai suoi errori, vengono idealizzati questi atteggiamenti, assolutamente deteriori?
Confesso un certo imbarazzo nel riportare le mie impressioni alla lettura di questo breve saggio, essendo dibattuto fra il compiacimento di vedere superati da altri certi limiti mentali di una cultura cattolica di stampo più medievale che evangelico e la delusione nel constatare la difficoltà (o la remora) nel procedere oltre, verso una più matura consapevolezza del nostro vero posto nel mondo.
La Pastorino, da  apprezzare nel suo slancio genuino verso una forma di spiritualità scevra dai rigori del dogmatismo e della ritualità cattolica, dichiara di aspirare ad una "riscoperta del proprio sé profondo e incontaminato", e nel perseguire questo scopo ritiene indispensabile prendere le distanze dal "cattolicesimo falsario, antropocentrista e tiranno" proponendo un "Panteismo cristiano Biocentrista". A chi ha, come me, una preparazione di tipo biologico ed un atteggiamento razionale e antifideista, tale approccio desta quasi irritazione. Innanzitutto per codesta idea di un sé profondo, che, strizzando l'occhio alla "laica" (ma non troppo) psicoanalisi, di fatto ripropone un dualismo mente-cervello che subito rimanda all'idea di un (per molti) irrinunciabile quid extramateriale (o extracorporeo), ovvero a ciò che le religioni chiamano "anima"; quel nonsocchè già così pregno alla nascita di contenuti (il peccato originale, il passo della reincarnazione, il bisogno di Dio, etc…) e così assolutamente individualizzato, "personale", al di la delle future esperienze mondane. Se tale fosse la nostra natura, come sembra suggerire l'autrice, si giustificherebbe la possibilità (e necessità metafisica) di un percorso di autorealizzazione che parta proprio dalla primaria realtà dell'anima, "la strada" ovvero il "tao". Di fatto, questo sé percepito si avvicina fin troppo all'anima delle religioni e altrettanto si allontana dal caos originario del nostro io biologico, secondo la impostazione scientifica.
Quando poi l'autrice mostra chiaramente di prendere le distanze dal "cattolicesimo falsario" e non dal cattolicesimo sic et sempliciter, palesa un limite che a me sembra un macigno; evitare un esame radicale di come e perché si siano sviluppati non solo il cristianesimo ma più o meno tutte le forme e culture religiose; in pratica, mi sembra che essa non comprenda o voglia considerare l'ingenuità e la primitiva necessità delle religioni come forse di socializzazione. Certamente, nel nostro tempo, nessuno di noi può contestare molti precetti morali del cristianesimo, come di altre religioni; ma occorre intenderli solo come brandelli di una più grande storia della civilizzazione, come parte della crescita spirituale dell'umanità intera, senza dare alcuna valenza e peso "soprannaturale" alle persone (Cristo incluso) che li hanno enunciati e che hanno (o avrebbero) preso parte all'edificazione di questo imponente e purtroppo ingombrante edificio che sono oggi le religioni. Sottolineare l'esigenza di liberarsi dal fardello dei "simboli" e degli "intermediari", come invita la Pastorino, per accedere al "Panteismo Cristiano Biocentrista", evidenzia ancor più l'ambiguità e direi anche l'incertezza del suo piano di lavoro. Non vorrei apparire più drastico di quanto lo sia effettivamente, ma il procedimento mi pare troppo vicino al classico paradigma sincretistico new-age, ovvero al prendere per buono tutto ciò che si ritiene buono, rigettando quanto sembra non esserlo (in barba agli irrinunciabili legami fra le due cose), ritenendo che esistano da una parte delle verità assolute di natura spirituale e dall'altro un processo storico di corruzione di queste verità: due posizioni che il laico razionalista non può fare sue.
Per quanto ho potuto desumere, l'autrice non potrebbe comunque definirsi, sentirsi, una non cristiana. Lo è, palesemente, perché assume come valido e gratificante il meglio della cultura cristiana; lo è, purtroppo, ancora, perché non sa scrollarsi di dosso l'idea, anzi il sentimento, che nel cristianesimo esista una verità, di fatto assoluta, extratemporale. A mio avviso la sua dovrebbe essere solo una posizione di passaggio, una sorta di nausea verso quello che essa crede un pasto adulterato, mentre è solo un pasto imperfetto, perché la cosiddetta verità, nell'evoluzione dell'universo e dunque anche di quel fenomeno che siamo noi, non è nella liberazione del mondo dalla corruzione dei tempi (idea squisitamente religiosa) ma nella imprevedibile espressione del divenire delle cose, una sorta di omega non prefigurato nell'alfa.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 40 (5/2005)